IL RACKET TARGATO ANTIRACKET. UNA BRUTTA STORIA RACCONTATA DA RICCARDO BOCCA SULL'ESPRESSO

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Il racket targato antiracket di Riccardo Bocca (L'Espresso) 27 marzo 2008 Un imprenditore depredato dalla mafia. Un risarcimento da incassare dallo Stato. E le richieste di denaro di chi avrebbe dovuto aiutarlo. Ora indagano i pm Sono le undici di mattina del 27 febbraio quando l'imprenditore edile siciliano Giuseppe Gulizia entra a Roma negli uffici del reparto operativo dei carabinieri. Ad accoglierlo c'è il maresciallo capo Alessandro Bitti: pronto ad ascoltarlo su una vicenda incredibile, al centro di un fascicolo del pm Angelantonio Racanelli. Una storia iniziata nel 2003 con la devastante estorsione imposta a Gulizia da un gruppo di mafiosi. E proseguita, secondo la denuncia dell'imprenditore, con un ricatto altrettanto odioso: quello messo in atto da protagonisti dell'antiracket, con tanto di mazzette versate al coordinatore siciliano della Fai (Federazione delle associazioni antiracket e antiusura italiane) Mario Caniglia, a Paola Grossi del Commissariato nazionale antiracket e a Lino Busà, presidente dell'associazione Sos impresa di Confesercenti, "promossa per l'elaborazione di strategie di contrasto al racket delle estorsioni e all'usura". L'ipotesi sostenuta da Gulizia, in altre parole, è che esista un racket nell'antiracket. Un mondo di ombre da cui spuntano favori equivoci e interferenze in atti pubblici. "Un incubo che mi ha devastato", dice l'imprenditore quarantenne, "ma che non basterà a fermarmi. Voglio giustizia, voglio la verità. Anche a costo di rischiare la vita". E pensare che le cose erano partite bene, per Giuseppe Gulizia. Figlio di imprenditori agricoli cresce a Pedagaggi, frazione di Carlentini in provincia di Siracusa. Qui gli affari si fanno con le arance, i mitici tarocchi, ma lui preferisce ruspe e cemento armato. Nel 1996 lavora come carpentiere nella zona di Lentini. Poi tenta il salto al Nord, in provincia di Brescia. Si trasferisce nel comune di Mazzano con moglie e figlia nel 1999, e diventa capo cantiere in un'azienda di Giuliano Campana, poi presidente dei costruttori edili bresciani. "Lavoravo sodo e ci sapevo fare", racconta. "Così mi sono messo in proprio e ho avuto fortuna". Nel 2003 la sua Asia costruzioni srl fattura oltre 2 milioni di euro e ha un giro di lavoro che coinvolge decine di operai. È il successo, la soddisfazione di avercela fatta: "Mi ero costruito una villa con un grande giardino", dice. "Volevo espandere i miei affari, invece è crollato tutto". Succede il 17 agosto 2003, mentre Gulizia è a casa dei genitori in Sicilia. Sta per sedersi a pranzo, quando sul videocitofono appare il volto di Maurizio Carcione, mafioso rampante della zona. Chiede di Giuseppe: "Tu sai chi sono, mi ha detto. Ho la terra che brucia sotto i piedi. Voglio che mi porti a lavorare con te a Brescia. E che sistemi la mia famiglia e cinque amici". Gulizia sa di non avere scelta. Chiede tre giorni per organizzarsi, dopodiché parte. Il 21 agosto sale sulla sua Audi 2500 e raggiunge Brescia assieme a Carcione. La mattina seguente gli consegna le chiavi di un appartamento a Bedizole, vicino Brescia. Poi arrivano la moglie e i due figli del boss. Poi ancora sbarcano i cinque compari: assunti in regola e mantenuti. "Gli ho comperato mobili, lavastoviglie, auto e quant'altro", dice Gulizia. "Inoltre gli integravo la busta paga con soldi in nero, malgrado fingessero di lavorare. Arrivavano sui cantieri tardi, bevevano, giocavano a pallone. E nel giro di poche settimane sono salite dalla Sicilia altre 18 persone. Tutte imposte da Carcione e sistemate con appartamenti e stipendi". Il piano del boss era semplice: sfilargli gli appalti e retrocederlo al rango di dipendente. Una manovra che non ammette intoppi. Quando l'imprenditore protesta, i mafiosi agiscono: "Una mattina sono uscito di casa alle cinque e mezzo per raggiungere un cantiere", spiega Gulizia. "Ho aperto la porta e davanti c'era una tanica di benzina". Il fatto viene denunciato alla polizia, ma Carcione non si ferma: continua a premere, diventa violento. "Diceva che se non avessi fatto ciò che voleva, mi avrebbe tagliato la testa e l'avrebbe spedita in Sicilia su un vassoio d'argento". Non solo: il 4 maggio 2004 il magazzino dei genitori di Gulizia viene incendiato, e nel rogo si perdono olio, vino e trattori di famiglia. "A quel punto non ci ho visto più", dice Gulizia: "Sono tornato dalle forze dell'ordine e ho raccontato tutto; anche la trattativa che avevo in corso con Salvatore Rossitto, un altro mafioso offertosi come intermediario tra me e Carcione". Il patto, per chiudere la partita, era di versare gli ultimi 28 mila euro a Carcione e 20 mila a Rossitto. Ma al momento della riscossione interviene la polizia. Colti in flagrante, finiscono in manette Rossitto e il killer Antonino Bellinvia, che lo accompagna. Dopodiché vengono arrestati e condannati il boss Carcione e Carmelo Santamaria, dipendente infedele di Gulizia.Detta così, una storia virtuosa: il boss che ricatta l'imprenditore di successo, l'imprenditore che si ribella e la giustizia che trionfa. Ma le disgrazie di Gulizia non finiscono qui. Anzi: il capitolo Carcione introduce un secondo incubo. Il più imprevedibile, per Gulizia. E il più esplosivo per gli investigatori che se ne stanno occupando. "Tutto parte quando Carcione e gli altri finiscono in prigione", sostiene Gulizia. "Avevo voglia di ricominciare, di rialzare la testa. Ma ero in condizioni pietose. Mia moglie, esasperata, se n'era andata di casa con la bambina. Sul fronte economico ero dissanguato: nessuno voleva aiutarmi, neanche gli amici. Per fortuna un ufficiale dei Ros mi ha suggerito di accedere al fondo di solidarietà per le vittime di estorsioni: un capitale pubblico gestito a Roma dal Commissariato nazionale antiracket". Per maggiori dettagli, viene messo in contatto con un'altra vittima delle estorsioni, dalla quale secondo Gulizia riceve il numero di cellulare di Lino Busà, dirigente nazionale di Confesercenti ("indicatomi come esperto di risarcimenti"), che a sua volta lo avrebbe indirizzato da Mario Caniglia, imprenditore agricolo noto per avere denunciato chi lo taglieggiava, e per essere in quel momento presidente dell'Associazione antiestorsioni di Scordia (provincia di Catania). Con lui, sostiene Gulizia, tutto sembra facile. "Lo contattai al telefono", spiega ai carabinieri, "e successivamente mi fissò un appuntamento nel quale avrei consegnato parte della documentazione per accedere al fondo". All'incontro, continua la sua testimonianza Gulizia, si presenta tra fine agosto e inizio settembre 2004 con l'amico Salvatore Cicciarella: un agente della polizia municipale di Pedagaggi, che nel tempo libero fa da mediatore per Caniglia nella vendita delle arance. Una persona di fiducia, ideale per instaurare un dialogo costruttivo. E infatti l'inizio è positivo racconta Gulizia ai carabinieri: "Caniglia mi rassicurò sul fatto che avevo pienamente titolo ad accedere al fondo, e che comunque lui aveva già fatto deliberare altri fondi ad alcune persone della Sicilia". Con tali premesse, il 20 settembre 2004 Gulizia presenta domanda di ammissione ai benefici. Chiede 116 mila euro di risarcimento per le somme estorte, e 910 mila per i mancati guadagni sugli appalti. Questa, secondo l'imprenditore, è la giusta ricompensa per essersi ribellato alla mafia. Ma la Guardia di finanza si spinge oltre: svolge accertamenti sulle società di Gulizia, e constatato il clamoroso danno aumenta il risarcimento a 2 milioni 508 mila 305, 64 euro. "Finalmente le cose marciavano", afferma Gulizia: "L'agente Cicciarella aveva contatti quasi quotidiani per la mia pratica con Caniglia. Intanto io mantenevo i rapporti anche con Busà e Paola Grossi del Commissariato antiracket, dai quali ricevevo indicazioni sulle cose da fare". Più volte, sostiene Gulizia, si presenta in via Cesare Balbo 39 a Roma (sede del Commissariato antiracket) a consegnare documenti. E in un'occasione Grossi lo accompagna "nell'ufficio del commissario in carica, Carlo Ferrigno, che seguiva la mia situazione". Paradossalmente, stando a Gulizia, i problemi spuntano quando il lieto fine è vicino. "A metà novembre 2005 Caniglia, diventato coordinatore siciliano della Federazione nazionale antiracket e antiusura, mi annuncia l'imminente erogazione di una prima tranche del risarcimento. Ero al massimo della felicità, pensavo di avere svoltato: ma mi sbagliavo. In cambio delle sue attenzioni, Caniglia mi ha imposto di acquistare circa 3 mila 500 litri del suo olio. Come se non bastasse, al doppio del prezzo di mercato". Una richiesta che dovrà essere verificata, ovviamente, ma che è della categoria difficile da eludere: "Stavo per ricevere i soldi, vedevo l'inizio della mia nuova vita. Potevo rifiutare?", si giustifica Gulizia. Stando alla sua testimonianza, poi, invia il padre, il fratello e l'autista Orazio Rizzo al magazzino di Caniglia, dove l'olio viene travasato in quattro cisterne da mille litri l'una. "In totale, un'operazione che mi è costata 19 mila 300 euro. Naturalmente senza ricevuta o fattura". "Ripeto", ha sottolineato Gulizia davanti ai carabinieri, "che tale acquisto è stato effettuato esclusivamente perché a 'richiesta', e credendo di dover estinguere un debito morale nei confronti del Caniglia". Il che esula da qualunque legge o senso etico, e anzi ci introduce in un mondo in cui si mischiano pericolosamente presunti estortori e estorti, ma porta i suoi risultati. Il 22 novembre 2005, il Commissariato nazionale antiracket stanzia effettivamente 637 mila euro per Gulizia: la famosa prima tranche. Ed è una festa, per Gulizia. Soddisfatto, racconta agli investigatori, si presenta a Scordia da Caniglia per ringraziarlo. "Ma a lui premeva un'altra cosa. Dopo i convenevoli, mi ha fatto notare che si avvicinava il Natale, ed era il momento di ringraziare chi si era adoperato per me". Ancora più concretamente, dice Gulizia ai carabinieri, Caniglia quantifica il 'ringraziamento' nel 10 per cento dell'erogazione ricevuta, circa 64 mila euro, dai quali andavano detratti gli oltre 19 mila dell'olio. "Gli altri 45 mila, ha detto Caniglia, dovevo suddividerli in parti uguali e portarli in tre bottiglie confezionate a lui, Paola Grossi e Lino Busà". Il giorno stesso, secondo la versione di Gulizia, si precipita ad acquistare nel supermercato di Scordia una bottiglia di whisky Chivas. Poi, a suo dire, infarcisce la scatola con 15 mila euro in contanti e la consegna a Caniglia: "Di persona, come richiesto all'agente Cicciarella". Quindi Gulizia ha denunciato di essere tornato a Brescia, di avere acquistato due bottiglie di champagne, e di avere riempito i pacchetti con i rimanenti 30 mila euro per poi ridiscendere a Roma. "Ho portato uno champagne con i soldi in via Cesare Balbo a Paola Grossi", spiega, "e l'altro a Lino Busà, nel suo ufficio alla Confesercenti di via Nazionale 60". Un incontro che andrà dimostrato, ma che è rimasto impresso nella memoria di Giuseppe Gulizia: "Ho detto a Busà: 'Questo è per come mi ha detto il signor Caniglia. Auguri di Buon Natale'. Lui ha ringraziato ed è finita lì". In seguito, Gulizia tace per quasi un anno su questi episodi. Un comportamento singolare, per chi ha la coscienza a posto: ma più che la trasparenza, dice, gli premeva risolvere la sua situazione. "Fosse arrivata la seconda tranche del risarcimento", ammette, "non avrei detto nulla". Invece le cose vanno diversamente. Nell'aprile 2006 la polizia si presenta nell'enoteca 'Antico inferno siciliano', aperta da Gulizia a Brescia con i soldi dell'antiracket, e nell'armadietto del pronto soccorso trova 30 grammi di hashish. Gulizia si dispera, giura sulla sua innocenza, sospetta una vendetta di Cosa nostra. Fatto sta che mentre gli investigatori indagano, la seconda rata del finanziamento viene congelata. Il 4 maggio 2007 Gulizia scrive una lettera a Francesco Forgione, presidente della commissione parlamentare Antimafia, pregandolo di intervenire. Ma non ottiene risposta. Stesso discorso per Tano Grasso, il presidente onorario della Federazione nazionale antiracket, già presentatogli da Caniglia. "A fine ottobre", racconta Gulizia, "Grasso mi ha dato appuntamento sotto l'ufficio di Busà in via Nazionale, come può confermare l'imprenditore Antonino D'Anna che mi ha accompagnato (e che in effetti conferma, ndr). Gli ho detto che avevo rispettato tutte le procedure, che avevo comperato l'olio da Caniglia e avevo fatto il regalo di Natale anche a Grossi e Busà. Ma lui alla parola 'Busà' ha tagliato corto: 'Ti devo salutare', ha detto. Ha raggiunto la scorta e se n'è andato su un'Alfa Romeo". A questo punto, il caso Gulizia accelera. "Caniglia", sostiene l'imprenditore, "mi ha fatto sapere che erano pronti altri 4 mila litri di olio. Però non ne potevo più. L'unica strada per avere giustizia, mi sono detto, era denunciare tutti: ed è quello che ho fatto". Il 2 novembre 2007 si presenta dai carabinieri di Augusta con un esposto contro Caniglia, Busà e Grossi. Il 27 novembre consegna un'altra denuncia alla polizia di Catania. E infine viene sentito dai carabinieri di Roma. Il tutto mentre Caniglia, a inizio marzo, si dimette da presidente dell'Associazione antiestorsioni di Scordia (pur rimanendo "punto di riferimento del direttivo regionale e nazionale della Federazione Antiracket nazionale"). "La verità", secondo l'agente di polizia municipale Salvatore Cicciarella, "è che Caniglia ha cercato di limitare i danni. Un pomeriggio è venuto nel mio ufficio, ha lasciato fuori la scorta e ha chiuso la porta: voleva che convincessi Gulizia a non sporgere denuncia. 'Spiegagli', ha detto, 'che quattro pietre al sole io le ho: lui arriverà al punto che non gli rimarrà un soldo'". Un finale possibile, ma improbabile al momento. Gulizia ha un lavoro presso un'azienda nel settore del fotovoltaico. Quanto al pm Racanelli, aspetta le verifiche dei carabinieri per valutare la posizione degli indagati. Nomi protetti dalla più ferrea riservatezza. (27 marzo 2008)

24/04/2008

Documento n.7271

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