FONDI SOVRANI, SECONDA ONDATA . LE "PREDE" SONO LE INDUSTRIE

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FONDI SOVRANI, SECONDA ONDATA - Devastati dalle perdite nel settore finanziario, ORA LE "PREDE" SONO LE INDUSTRIE - lontani anni luce i tempi in cui (era solo 2008) i fondi dell’Arabia Saudita e di Singapore investirono 11,5 miliardi $ nell’Ubs... Eugenio Occorsio per "Affari & Finanza" de "La Repubblica" La notizia dell'ingresso nel capitale Daimler dell'Abu Dhabi Investment Authority, l'entità finanziaria più cospicua del pianeta con i suoi 875 miliardi di dollari pronti all'uso, non è solo significativa per l'insperata iniezione di capitale nel sofferente settore dell'auto, ma perché conferma il nuovo corso dei fondi sovrani. Devastati dalle perdite nel settore finanziario (si calcola che in un anno la disponibilità dei 38 fondi sovrani sia scesa da 3.700 miliardi di dollari ai 2.400 attuali), si riaffacciano in quello industriale. Frastornati dalla batosta nella finanza, i fondi sono rimasti a guardare per qualche mese e ora hanno ricominciato a investire con criteri diversi. Stavolta preferiscono l'industria vecchio stampo, interventi meno onerosi e più mirati, scegliendo terreni per loro più familiari: il Temasek di Singapore ha investito la settimana scorsa 1 miliardo di dollari nella Terralliance Technologies, una compagnia di esplorazioni energetiche fondata in Texas dal petroliere Kleiner Perkins. Intanto, il fondo dell'Oman ha rilevato il 7% della società energetica ungherese Mol per 370 milioni di euro e Dubai è entrata nell'austriaca Omv con 140 milioni. Sembrano lontani anni luce i tempi in cui (era solo l'ottobre del 2008) il fondo sovrano dell'Arabia Saudita si unì con il suo "omologo" di Singapore e insieme investirono 11,5 miliardi di dollari nell'Ubs. Il titolo valeva 22 dollari: oggi quota intorno agli 11. Qualche mese prima la Qatar Investment Authority aveva comprato il 15% del London Stock Exchange e il fondo di Dubai il 20%: il titolo ha perso da allora due terzi del valore. Ma le perdite non si contano più. Lo stesso fondo di Dubai nel corso del 2008 ha pagato 3,1 miliardi per il 20% del Nasdaq, che da allora ha perso il 35%. L'America è stata fatale per più di un fondo: i 2 miliardi investiti in agosto dalla Korea Investment Corporation nella Merrill Lynch si sono praticamente volatilizzati con l'acquisizione da parte della Bank of America della decaduta casa d'investimenti, mentre la China Investment Corporation ha investito 5 miliardi nella Morgan Stanley a fine 2007 quando valeva 70 dollari mentre oggi ne quota 20. Quanto a Citigroup, più del 20% è andato fra fine 2007 e inizio 2008 alla cordata congiunta SingaporeKuwait (12,5 miliardi) e al fondo di Abu Dhabi (7,5 miliardi): sembrava un buon affare perché il titolo era sceso da 60 a 30 dollari fra luglio e dicembre 2007, solo che oggi ne vale 4 dopo aver toccato quota 1 all'inizio di marzo 2009. ìAbu Dhabi In tutte queste operazioni c'è stata sicuramente una componente, tutt'altro che indifferente, di accordi politici. Come ha esplicitato a suo tempo la rivista Foreign Affairs, dietro i massicci acquisti di titoli bancari e finanziari c'erano le intese di maggior protezione militare da parte dell'amministrazione Bush contro la minaccia iraniana per i paesi del Golfo. Con Obama la minaccia si è allentata e, sarà un caso, gli interventi sono finiti. Non va dimenticato però che il petrolio, le cui entrate alimentano questi fondi, è sceso da 147 a 50 dollari fra il luglio scorso e oggi, fatto che ha comportato il drastico rimensionamento di una serie di opere infrastrutturali previste nell'area e inevitabilmente delle operazioni all'estero. Ora i paesi arabi stanno in fretta approntando delle inusuali emissioni di bond per le loro esigenze di cassa, ma difficilmente il ricavato andrà ad alimentare i fondi. «È tempo che si sviluppi nei nostri paesi un mercato secondario delle obbligazioni come c'è in qualsiasi altra area industrializzata», ha spiegato Mohieddine Kronfol, manager di Algebra Capital, un'istituzione finanziaria di Dubai. Il governo unificato degli Emirati Arabi (che comprendono Dubai, Abu Dhabi e altre cinque cittàstato) starebbe per varare un'emissione fra i 10 e i 20 miliardi di dollari, la prima della sua storia. Così come per la prima volta i paesi del Golfo sono finiti in deficit, per un totale di circa 150 miliardi di dollari (pur continuando a gestire ingenti fondi sovrani). È una partita delicatissima: come parte degli accordi di difesa con Washington, l'Arabia Saudita ha accettato di cambiare politica d'investimento (in generale i paesi arabi investono il 70% in azioni) per destinare gran parte delle sue riserve (il fondo sovrano dichiara poco più di 300 miliardi di dollari) all'acquisto di titoli del Tesoro Usa. Ancora più complessa la questione con la Cina. In questo caso il fondo sovrano è alimentato con il macroscopico surplus commerciale: i cinesi com'è noto sono riluttanti ad accettare una rivalutazione dello yuan per riequilibrare l'interscambio con l'America, e vista quest'ostinazione sarebbe stata scelta la via diplomatica per garantire che almeno parte delle ingenti riserve in dollari che si formano e vengono in parte dirottate sul fondo (in questo caso l'ha rivelato addirittura la Cia stando al Washington Post) venissero usate per ricapitalizzare l'esangue finanza Usa. La Cina del resto ha messo sul tappeto dei fondi sovrani oltre 200 miliardi di dollari ma il totale delle sue riserve (oro e dollari) è dieci volte tanto, anche se queste riserve sono cresciute di "solo" 7,7 miliardi nel primo trimestre 2009 per il rallentamento dell'export dovuto alla recessione (il surplus commerciale cinese si è ridotto di ben il 45%), minor incremento da otto anni (nel trimestre precedente l'aumento era stato di 40 miliardi). Qualsiasi tipo di accordo geopolitico è stato possibile finché le perdite per i fondi non hanno superato ogni ragionevole limite. La stima complessiva, si diceva, pone il totale attualmente disponibile di questi fondi intorno ai due trilioni e mezzo di dollari, ma è difficile fare questi calcoli perché i fondi sovrani non pubblicizzano le loro cifre: sui siti web è detto esplicitamente che «la disclosure delle attività non è nelle abitudini», e tutte le resistenze alla cosiddetta "carta di Santiago" varata in ottobre dal Fondo Monetario Internazionale per chiedere trasparenza, si spiegano con quest'irrevocabile politica. Un minimo passo a dire il vero, qualche fondo lo fa: si può interpretare così la rimozione di Ho Ching, moglie del primo ministro di Singapore e presidentessa del Temasek (a conferma dei legami fra questi fondi e i governi) e la sua sostituzione con Charles Goodyear, un americano già a capo del colosso minerario Bhp Billiton, che darà un'impostazione più manageriale alla gestione e più orientata agli investimenti nell'industria. Comunque c'è chi i conti in tasca ai fondi li fa. Brad Setser, un economista del Council of Foreign Relations di New York, stima che dei 900 miliardi dichiarati, il fondo di Abu Dhabi ne abbia in realtà persi un terzo, e dei 300 miliardi persi solo 50 sarebbero stati compensati dalle entrate petrolifere. La Kuwait Investment Authority avrebbe perso il 30% dei suoi dichiarati 250 miliardi di dollari, e malissimo sta andando anche alla Qatar Investment Authority, che dichiara oggi non più di 40 miliardi perché ne ha persi recentemente un bel po': ha investito a fine anno 5 miliardi nella banca britannica Barclays il cui titolo da allora ha perso il 20%. Uno dei pochissimi fondi che rendono pubblici i propri bilanci, quello norvegese (in cui confluiscono oltre alle rendite petrolifere parte dei fondi pensione pubblici), oggi è di poco meno di 350 miliardi di dollari e ha perso il 7,7% nel terzo trimestre del 2008 più un altro 8% nel quarto. I calcoli complessivi, cioè la perdita del 25% del valore complessivo dei fondi li ha fatti Stephen Jen della Morgan Stanley di Londra, che ha commentato: «Non puoi perdere un quarto del tuo valore senza conseguenze pesanti». Il gioco adesso è capire in quale direzione i Fondi orienteranno i loro investimenti.

24/04/2009

Documento n.7893

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