BANCHE: LA MORTE DEI PARADISI FISCALI E' SOLO FUFFA PER L’OPINIONE PUBBLICA TRUFFATA

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LA BANCA è ROTTA – LA MORTE DEI PARADISI FISCALI è SOLO FUFFA PER L’OPINIONE PUBBLICA TRUFFATA – ALLE MINACCE DEI LEADER DEL MONDO HANNO PROMESSO COLLABORAZIONE – MA “Prima di finire all’inferno passeremo un lungo soggiorno al purgatorio”… Alberto D'Argenio per "Affari & Finanza" de "la Repubblica" «Tra paradiso e inferno c'è di mezzo il purgatorio». E' questa la speranza dei più ottimisti tra chi vive e lucra sui centri offshore, quei paradisi fiscali ai quali i Grandi del mondo hanno dichiarato una guerra senza quartiere. O almeno, questa è la promessa del vertice di Londra. Ma per i più avveduti il loro mondo non si sgretolerà in un attimo: ci vorranno anni di negoziati per fare piazza pulita dei conti segreti degli evasori. Un periodo sufficientemente lungo da far sperare di salvare il salvabile nonostante il G20 di giovedì scorso abbia lanciato il roboante annuncio sulla "fine di un'epoca". Una speranza condivisa tanto da chi negli impenetrabili istituti di credito offshore occulta le proprie ricchezze, quanto per i loro angeli custodi. Una montagna di soldi che, contando anche i centri extraeuropei supera i 7000 miliardi di dollari, quattro volte il Pil italiano. In Europa sono i soliti noti: Lussemburgo all'interno della Ue, Svizzera, Liechtenstein e Andorra fuori. Poi ci sono Austria e Belgio, non propriamente centri offshore ma gelosi custodi del segreto bancario per i non residenti. «C'è paura confessano gli esperti del settore ma c'è anche la consapevolezza che il mondo dei paradisi fiscali non può crollare nel giro di qualche settimana». In sostanza nessuno crede che secoli di storia e di loschi segreti possano essere spazzati da un colpo di spugna. Eppure i centri offshore negli ultimi mesi sono stati al centro di scandali colossali e la peggior crisi economica degli ultimi settant'anni ha fatto di loro un bersaglio dei grandi leader: Obama, Sarkozy e Merkel. Si è mossa l'Unione Europea, si sono mossi gli Stati Uniti e, infine, il G20, che della lotta al segreto bancario ha fatto la propria bandiera. I paradisi sono così diventati un ambìto trofeo da sventolare di fronte all'opinione pubblica stremata dalla recessione e i loro forzieri un luogo dove rastrellare miliardi sommersi con cui puntellare i conti pubblici dissanguati dai piani anticrisi (gli Usa, ad esempio, stimano che nei paradisi ogni anno spariscono 100 miliardi di dollari sottratti al fisco). E così il nervosismo serpeggia, la paura è palpabile. Chi può si guarda in giro, come ad Andorra, piccolo principato sui Pirenei in bilico tra Spagna e Francia. Si alzano gli occhi verso le montagne innevate e si immagina un futuro dove turismo e sci possano sostituire gli introiti della finanza segreta. Magari con l'aiuto di quei Paesi i cui governi imporranno lo smantellamento. Ma altrove è più difficile immaginare una nuova vita: in Svizzera, ad esempio, sostituire i miliardi stranieri che contribuiscono al 25% del Pil nazionale non sarà facile (300 miliardi arrivano dall'Italia). Ecco perché tutti si preparano ad una resistenza ad oltranza. I primi segnali sono arrivati lo scorso anno con lo scandalo dei conti segreti tedeschi nel Liechtenstein, poi ci si è messo il caso Madoff in Lussemburgo e infine la crisi economica, il terremoto che ha scatenato la soluzione finale del G20. E così dalle minacce degli ultimi anni, per la prima volta, si è passati ai fatti, inserendo tutti i centri offshore del Vecchio Continente nella bozza di lista nera Ocse con i paesi che non cooperano. Sono poi partite le pressioni bilaterali come quella di Sarkozy, che ha minacciato Andorra di lasciarla senza principe (per tradizione il presidente francese condivide il titolo di regnante con un vescovo spagnolo). I risultati si sono visti subito: alla vigilia del G20 di Londra tutti i paradisi europei, almeno in apparenza, sono caduti come birilli, facendo concessioni fino a poche settimane prima inimmaginabili. Andorra, Austria, Belgio, Liechtenstein, Lussemburgo e Svizzera hanno promesso di rivedere il segreto bancario e di adeguarsi agli standard Ocse in materia di mutua assistenza amministrativa e si sono impegnati ad accrescere lo scambio di informazioni con gli altri paesi. Con una postilla fondamentale: lo faranno solo "caso per caso" e su "richiesta concreta e giustificata" da parte delle autorità giudiziarie e fiscali dei paesi in cui risiedono gli evasori. Tutti, inoltre, hanno ricordato che per mettersi in regola ci vorranno "anni di negoziati", al termine dei quali bisognerà cambiare le leggi nazionali e stipulare una serie di accordi bilaterali con i singoli governi a caccia dei forzieri nascosti. Aperture che gli hanno evitato di finire nella "lista nera" definitiva che l'Ocse ha pubblicato a poche ore dalla fine del G20 londinese di giovedì scorso, bensì in quella "grigia", che comprende i paradisi che si sono impegnati a collaborare per smantellare il segreto. Gli addetti ai lavori di entrambi gli schieramenti sanno che le vere trattative iniziano ora e saranno tanto dure quanto lunghe. Lo dimostrano le dure reazioni a caldo di Lussemburgo e Svizzera all'indomani del G20. E la tesi è confermata dai massimi responsabili della Commissione europea, braccio armato dei governi Ue nella lotta al segreto bancario: «Ci vorrà del tempo spiegano a Bruxelles negozieremo per anni, loro porranno mille ostacoli, avanzeranno le richieste più strane per rallentarli ma alla fine hanno preso un impegno dal quale non si potranno tirare indietro e il mondo ci ha dato un mandato preciso». Come dire, prima o poi il segreto bancario cadrà e su richiesta di un giudice che indaga sulla criminalità organizzata, sulla droga, sul riciclaggio o semplicemente sull'evasione fiscale, i paradisi dovranno alzare il velo sui conti dell'indagato, ma la partita per arrivare a questo risultato sarà lunga e imprevedibile. Alla fine il dorato mondo della finanza segreta qualche privilegio potrebbe conservarlo, potrebbe risultare ridimensionato, ma non distrutto. C'è poi il problema di come fare uscire i soldi nascosti nei conti svizzeri e degli altri paradisi del Vecchio Continente: lo scudo fiscale europeo ipotizzato solo due settimane fa nel corso dell'ultimo summit Ue potrebbe rivelarsi una maxioperazione di riciclaggio di denaro sporco. E poi la comunità internazionale non può permettersi di lasciare sul lastrico i paradisi fiscali nel cuore dell'Europa. Come nel caso dei coltivatori del papavero afghano o della coca colombiana, colpire semplicemente i loro campi non basta. E' necessario dare un'alternativa e altre fonti di guadagno. Insomma, i paradisi di tutto il mondo, compresi quelli asiatici e caraibici, faranno catenaccio, giocheranno di sponda per darsi reciprocamente manforte in modo da rallentare e condizionare la trattativa globale. Una strategia che a Bruxelles conoscono bene, così è sempre stato e così sempre sarà. Ecco perché si inizia a preparare l'offensiva: in un documento segreto circolato tra i ministri delle Finanze europei si capisce che i piani di guerra devono ancora essere messi a punto. Per ora, ad esempio, nel testo riservato la Commissione europea non parla di "sanzioni" per chi non collaborerà. Si limita a chiedere una "cassetta degli attrezzi" per convincerli a diventare più trasparenti e per incastrarli ipotizza una strategia "del bastone e della carota". La carota sarebbe un aiuto a cambiare pelle, il bastone una punizione come "la messa al bando" delle filiali dei gruppi europei che operano nei paradisi fiscali e il "divieto" per questi di piazzare nell'Ue «prodotti originati nei paesi non cooperativi». Si tratta di strumenti già esistenti, e non di nuove armi. Intanto i funzionari lavorano ad una "comunicazione" che inizi ad abbozzare un nuovo e più penetrante approccio. Ma sarà un lavoro lungo e complesso che giustifica i più ottimisti: «Prima di finire all'inferno passeremo un lungo soggiorno al purgatorio».

06/04/2009

Documento n.7860

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