DERIVATI ALLA DERIVA: ANCHE MILANO TRUFFATA DALLE BANCHE

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MILANO ALLA DERIVA – IL COMUNE TRUFFATO DALLE BANCHE SUI DERIVATI – MA PERCHÉ ALBERTINI, CHE PAGAVA PROFUMATAMENTE CONSULENZE UN PO’ PER TUTTO, FIRMA UN CONTRATTO CAPESTRO SENZA CONTROLLO?... L'ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini (Foto Eva 3000) 1 - “MILANO TRUFFATA DALLE BANCHE” Paolo Colonnello per “La Stampa” Una truffa da 100 milioni di euro ai danni del Comune di Milano. E’ ciò che sta emergendo dall’inchiesta sui derivati acquistati da Palazzo Marino per finanziare i propri debiti con la cassa depositi e prestiti attraverso un bond trentennale: una cifretta da un miliardo e 682 milioni di euro. Ieri la Guardia di Finanza su ordine del pm Alfredo Robledo ha perquisito le sedi delle quattro grosse banche internazionali che si prodigarono per il maxi finanziamento, distribuendo tra una decina di manager e banchieri informazioni di garanzia con l’ipotesi di truffa aggravata ai danni del Comune in relazione a contratti derivati stipulati con l’amministrazione Albertini tra il giugno del 2005 e l’ottobre del 2007 e rinegoziati ben sei volte con sospetti di commissioni occulte per le banche. Si tratta di UBS, Deutsche Bank, Jp Morgan e l’irlandese Depfa che hanno sedi distaccate a Milano ma il cuore degli affari a Londra, dove effettivamente vennero firmati i contratti. Per ora sul registro degli indagati dell’inchiesta aperta un anno fa - e rimpolpata via via da un’indagine della Corte dei Conti e da un altro esposto del consigliere d’opposizione Basilio Rizzo - ci sono soltanto i suddetti manager ma è chiaro che l’indagine punta ad accertare anche eventuali responsabilità di funzionari e di politici milanesi, visto che tra le perplessità dalla Procura c’è proprio quella relativa al fatto che i contratti, che prevedevano commissioni altissime e rischi evidenti, vennero firmati senza l’aiuto di alcun consulente. Una vera stranezza visto l’abitudine del Comune ad utilizzare consulenze profumatamente pagate un po’ per tutto. E dire che il motto dell’ex sindaco Gabriele Albertini, sotto la cui giunta vennero firmati i contratti, era di considerarsi «un buon amministratore di condominio». Ma cosa dire di un amministratore che accende un mutuo capestro per la vostra casa senza far controllare cosa c’è scritto nel contratto? O, peggio, lo fa controllare da qualcuno - e qui va stabilito se per dolo o per colpa - che favorisce la controparte? Fatto sta che, dopo un esame approfondito della Finanza, sarebbe emerso che i contratti da una parte sarebbero stati strutturati sempre a favore delle banche erogatrici e dall’altra che venivano stipulati in maniera molto veloce, con una procedura che andava dalle 2 o 3 settimane al massimo di un mese. Perchè tutte queste stranezze per negoziare un finanziamento così importante? A chi conveniva ogni volta alzare lo spread ma anche il “cap” e il “floor”, ovvero il tetto e il piano entro cui calcolare i tassi Euribor e Libor su cui costruire gli interessi della scommessa rappresentata dai derivati? Di certo, partito con un finanziamento a tasso fisso del 4.019% a durata trentennale, Palazzo Marino a furia di modifiche al contratto originario è arrivato a negoziare un tasso variabile al 4,22. «In tal modo - ha osservato la corte dei Conti - il rischio finanziario a carico del Comune è andato crescendo, ciò che si riflette sulla valutazione del valore di mercato dello swap». Doveva essere un risparmio, si è trasformato in un incubo che se oggi il Comune volesse interrompere costerebbe, al “mark to market”, circa 290 milioni di euro. L’indagine ipotizza che qualcuno se ne sia concretamente avvantaggiato, guadagnando ben più dei 168 mila euro previsti dalle commissioni a favore delle banche: si parla di decine di milioni di euro. Il sindaco Letizia Moratti per ora attende di saperne di più. «Abbiamo avviato una ricerca - ha detto il sindaco - attraverso una gara pubblica, di un advisor finanziario per assisterci su tutte le operazioni bancarie inclusi i derivati. È una linea, quella della tutela degli interessi del Comune, che non possiamo che condividere». 2 - I DERIVATI ERANO UNO SPECCHIETTO PER LE ALLODOLE… Francesco Spini per “La Stampa” Ingredienti per spremere un Comune italico fino allo stremo e rendere felice una banca: prendere un Interest Rate Swap, aggiungerci un floor e un cap, ovvero un bel collar, spolverare con delle opzioni sui tassi di cambio e inserire il tutto in un callable, che interromperà - non sia mai! - gli eventuali guadagni del cliente. Servire con un anticipo di cassa e incamerare tutte le commissioni da apportare a bilancio. Se per chi legge tutto questo è arabo, stia pure tranquillo: lo era anche per gli enti locali e le migliaia di imprese private che negli ultimi anni hanno provato l’ebbrezza dei derivati impazziti. Tutto nasce da un’esigenza semplice così: recuperare soldi per costruire asili, asfaltare strade, abbellire un giardinetto pubblico. Primo passo: si chiede un finanziamento alla Cassa Depositi e Prestiti, piuttosto che a una banca. Lo scopo di un ente pubblico è quello, ovviamente, di pagare il meno possibile e di contenere i rischi che derivano dal saliscendi dei tassi. Proprio per questo, molto spesso, le banche propongono un derivato, uno strumento che scommette su un certo andamento di indici e tassi. «I derivati non sono il male in sé - commenta Giorgio Pajola, direttore generale di Calipso, società di risk management del gruppo Banca Finnat, di cui è partner anche Paolo Chiaia, uno dei tre saggi chiamati dal Comune di Milano a valutare la questione derivati -. Se l’operazione ha senso, ad esempio trasformare un tasso variabile in fisso, ed è semplice, gli strumenti finanziari saranno trasparenti, e quindi facilmente valutabili anche da chi non è un superesperto». La soluzione più semplice è quella di sottoscrivere con la banca un semplice Irs, Interest Rate Swap, che è un contratto derivato che prevede uno scambio: la banca paga al cliente il tasso variabile, il cliente paga il tasso fisso. E’ facile per il Comune capire se ha strapagato l’operazione: basta leggere le quotazioni dell’Irs, disponibili sui giornali finanziari. Così tutti vivono sereni e contenti. Quasi tutti: la banca preferisce complicare «perché complicando può fare crescere i costi impliciti», dice Pajola. Ed è proprio qui che cominciano i guai. Al posto dell’Irs la banca propone un prodotto composito e complicato che il cliente non riesce più a valutare. Perché un derivato sia equo, infatti, il valore attuale di quanto la banca deve dare al cliente deve essere uguale a quanto quest’ultimo deve riconoscere all’istituto. Spesso non è così. Valori attualizzati di flussi legati all’andamento di tassi di interesse anche esteri, alla differenza del comportamento di due indici, a opzioni su valute, tanto per fare degli esempi, possono creare uno squilibrio tra le due prestazioni a sfavore del cliente. A questo punto, molto spesso, le banche fanno partire l’operazione «allodola», con relativo specchietto: versare pronta cassa al cliente una parte di questo disequilibrio, dando così l’impressione del guadagno immediato, celando che il peggio deve ancora venire. Mentre la banca guadagna, il cliente sta già perdendo. Solo più tardi però si accorgerà che il mark to market, vale a dire il valore di mercato, è negativo e che il derivato non ha certo dato una mano alle esigenze iniziali. A un certo punto la banca proporrà di rinegoziare il derivato, guadagnandoci un’altra volta. Fino all’assurdo: quando la banca fa trasformare un prestito, ad esempio, in ammortamento con vita media di 10 anni in un’obbligazione ventennale, anche qui accompagnata da un derivato di ammortamento che permette al Comune di rimborsare poco per volta quanto a scadenza dovrà ai propri sottoscrittori. Nel frattempo a goderne è la banca: riceve liquidità su cui guadagna per l’ennesima volta. Dagospia 27 Giugno 2008

27/06/2008

Documento n.7379

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