Cassazione 14470/2005.Apercredito: non sempre necessaria la forma scritta.

in Sentenze e testi di legge
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA SENTENZA 09-07-2005, n. 14470 (Presidente U. R. Panebianco, Relatore L. Panzani) Svolgimento del processo Il Fallimento della s.p.a. (omissis) conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Napoli il Monte dei Paschi di Siena s.p.a. proponendo azione revocatoria delle rimesse di conto corrente effettuate dalla società fallita sul conto corrente intrattenuto presso la banca convenuta nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per il complessivo importo di lire 1.704.575.482. Radicatosi il contraddittorio il Tribunale di Napoli con sentenza 3.3.2000 accoglieva la domanda, condannando la banca convenuta al pagamento della somma predetta a favore della curatela, oltre interessi e spese. Su appello del Monte dei Paschi di Siena la Corte d’appello di Napoli con sentenza 8.3.2002 confermava la sentenza di primo grado. Osservava la Corte che la banca appellata non aveva provato che il conto corrente fosse affidato e che pertanto le rimesse effettuate non fossero revocabili perchè effettuate nei limiti dell’affidamento. Ciò perchè la scheda degli affidamenti e l’estratto notarile dei libri contabili, prodotti dalla banca, non sostituivano la forma scritta richiesta ad substantiam per il contratto di apertura di credito nè il contratto poteva ritenersi provato per facta concludentia. Le scritture contabili prodotte dalla banca, inoltre, non avevano efficacia probatoria privilegiata ai sensi dell’art. 2710 c.c. essendo il curatore terzo rispetto al contratto stipulato dalla società fallita. Le rimesse effettuate da terzi sul conto, nella specie dalle U.S.L., non potevano essere considerate pagamenti del terzo, perchè si trattava di terzi debitori della fallita, che avevano provveduto al pagamento di un loro debito nei confronti di quest’ultima e non della banca. Sussisteva infine la prova della scientia decoctionis del Monte dei Paschi di Siena, perchè la banca, quale operatore qualificato, non poteva non essere consapevole dello stato d’insolvenza in presenza di elementi sintomatici quali l’iscrizione d’ipoteca sui beni della società fallita da parte di un creditore in forza di decreto ingiuntivo, l’iscrizione sui beni stessi di sequestro conservativo, la presenza di perdite superiori al terzo del capitale sociale, il notevole sbilancio tra crediti e debiti, la relazione ad uso interno della banca in cui si dava atto della crisi di liquidità della società a fronte della mera "speranza" di ottenere un’inversione di tendenza in futuro, lo stesso irregolare andamento del conto corrente, sintomatico della carenza di liquidità. Ha proposto ricorso per cassazione il Monte dei Paschi di Siena che ha formulato sei motivi di ricorso. Resiste con controricorso la curatela del Fallimento che ha proposto ricorso incidentale con unico motivo, illustrato da memoria, Motivi della decisione Con il primo motivo di ricorso (motivo 1.1.) la ricorrente lamenta violazione dell’art. 11 disp. prel. c.c. Ritenendo che il contratto di apertura di credito in virtù del quale era stato concesso affidamento a favore della società fallita fosse regolato dagli artt. 3 legge 154/92 e 117 t.u.b., la Corte d’appello non avrebbe considerato che i rapporti tra banca e cliente risalivano almeno al 1990 e quindi a data anteriore all’entrata in vigore delle disposizioni citate, che non potevano avere efficacia retroattiva in ragione del generale principio d’irretroattività della legge sancito dall’art. 11 disp. prel. c.c.. Con il secondo motivo (motivo 1.2) la banca ricorrente lamenta violazione degli artt. 3, comma 3, legge 154/92 e 117 t.u.b. nonchè difetto di motivazione ed omessa e falsa interpretazione delle prove acquisite su punti decisivi della controversia, perchè la sentenza impugnata avrebbe trascurato che, in forza del terzo comma dell’art. 3 legge 154/92 e del decreto 24.4, 1992 del Ministro del Tesoro, oltre che della circolare del maggio 1992 della Banca d’Italia, la forma scritta non era obbligatoria per le operazioni e servizi giàprevisti in contratti redatti per iscritto. Nella specie il contratto di apertura di credito era previsto dal contratto di conto corrente stipulato tra le parti in forma scritta, sì che il contratto di apertura di credito non richiedeva la forma scritta. Con il terzo motivo di ricorso (motivo 2.1) la banca ricorrente deduce violazione degli artt. 2698 e 2710 c.c. Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello il libro fidi, da cui risultava un affidamento sino a concorrenza di 400 milioni a favore della società fallita, avrebbe efficacia probatoria privilegiata. Inoltre ai sensi dell’art. 8 delle n.b.u. che regolano il contratto di conto corrente, i libri e le scritture contabili della banca fanno piena prova nei confronti del correntista. Deduce ancora (motivo 2.2)violazione degli artt. 2727, 2729, 2733 c.c. in relazione agli artt. 1326 e 1327 nonchè 1842 e 1843 c.c. Se era vero guanto affermato dalla Corte d’appello, che il libro fidi provava soltanto una deliberazione interna della banca in ordine alla concessione di fido, non ancora tradottasi in volontà negoziale con l’accettazione del correntista accreditato, i giudici d’appello avrebbero dovuto ricercare la prova dell’intervenuta pattuizione, rinvenendola nell’andamento del conto, documentato dagli estratti conto che costituirebbero prova diretta del contratto di apertura di credito, conclusosi nei modi di cui all’art. 1327 c.c., in ragione del dimostrato utilizzo della provvista messa a disposizione della banca tramite il fido concesso. Con il quarto motivo di ricorso (motivo 3) la ricorrente deduce violazione dell’art. 67 l. fall. perchè in ragione del fido accordato le rimesse sul conto dovevano considerarsi meri atti di ripristino della provvista, privi di efficacia solutoria. I versamenti inoltre non erano revocabili perchè effettuati da terzi senza alcuna lesione della par condicio creditorum. Con il quinto motivo di ricorso la banca ricorrente lamenta contraddittorietà di motivazione su un punto decisivo della controversia perchè, volendo qualificare i versamenti dei terzi come pagamenti effettuati a favore del fallito e non della banca, e quindi come atti revocabili, la revocatoria andava esperita nei confronti del terzo e non della banca che si era limitata ad espletare il servizio di cassa a favore della società fallita, sua correntista. Con il sesto motivo la ricorrente lamenta insufficienza e contraddittorietà di motivazione su un punto decisivo della controversia. Nel ritenere sussistente la prova della scientia decoctionis in capo alla banca, la Corte d’appello avrebbe ignorato l’andamento del conto, da cui risultava che la banca aveva continuato ad erogare credito, anche dopo che il saldo passivo si era sensibilmente ridotto, in una situazione che avrebbe giustificato la revoca dell’affidamento se effettivamente vi fosse stata consapevolezza dello stato di dissesto in atto. Anche l’annotazione per uso interno di un funzionario della banca non poteva essere letta come dimostrazione di tale consapevolezza. Con l’unico motivo del ricorso incidentale la curatela lamenta violazione dell’art. 92 e dell’art. 360 n. 5 c.p.c. La Corte d’appello nel condannare la banca appellante al pagamento delle spese di lite ha sensibilmente ridotto l’importo dei diritti ed onorari, oltre che delle spese liquidate, distaccandosi senza alcuna motivazione dagli importi indicati nella nota spese della parte, redatta ai sensi dell’art. 75 disp.att. c.p.c.. Il primo motivo di ricorso (motivo 1.1.) è inammissibile. Esso si fonda infatti sull’eccezione che il rapporto tra le parti risalirebbe almeno al 1990, che è eccezione nuova, mai formulata nei precedenti gradi di giudizio. Va anzi sottolineato che le rimesse oggetto di revoca risalgono al periodo 21 marzo 1994 - 30 settembre 1994, mentre le delibere di concessione di fido invocate da parte ricorrente si riferiscono, secondo le allegazioni di parte ricorrente non contestate dalla controricorrente curatela, al 19.4.1994 ed all’11.5.1994. Il secondo (1.2), terzo (2.1 e 2.2.) e quarto motivo (3) di ricorso possono essere esaminati congiuntamente in quanto trattano questioni connesse. Afferma la ricorrente che la Corte territoriale nel ritenere che il contratto di apertura di credito debba essere stipulato per iscritto a pena di nullità, così come richiesto prima dall’art. 3 della legge 154/92 e successivamente dall’art. 117 t.u.b., avrebbe trascurato che in forza del terzo comma dell’art. 3 legge 154/92 e del decreto 24.4.1992 del Ministro del Tesoro, oltre che della circolare del maggio 1992 della Banca d’Italia, la forma scritta non era obbligatoria per le operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto. Nella specie il contratto di apertura di credito era regolato nel suo contenuto normativo dal contratto di conto corrente stipulato tra le parti in forma scritta, si che tale ultima forma non era richiesta anche per la sua stipulazione. Aggiunge poi che nel caso in esame, pur se si doveva concordare con la Corte d’appello nel rilevare che il libro fidi prodotto in atti dimostrava soltanto l’esistenza di una deliberazione interna della banca con cui questa aveva deliberato di concedere un affidamento alla società fallita, dal libro fidi e dalle scritture contabili della banca, oltre che dagli estratti conto comprovanti le movimentazioni del conto corrente, si sarebbe ricavata la prova, per facta concludentia e dunque ex art. 1327 c.c., dell’avvenuta stipulazione del contratto di apertura di credito, in ragione del dimostrato utilizzo della provvista messa a disposizione della banca tramite il fido concesso, l’art. 117 t.u.b. stabilisce al primo comma, con riferimento ai contratti bancari, che i contratti sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti, prevedendo al terzo comma, la nullità del contratto in caso d’inosservanza della forma prescritta. Tuttavia il secondo commadella norma dispone che il CICR (Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio) può prevedere che, per motivate ragioni tecniche, particolari contratti possano essere stipulati in altra forma. L’art. 3, comma 3, legge 154/92 prevedeva analogamente che "su conforme delibera del CICR, la Banca d’Italia può dettare, per motivate ragioni tecniche, particolari modalità per la forma dei contratti relativi a determinate categorie di operazioni e di servizi". Parte ricorrente afferma che in ragione del decreto 24.4, 1992 del Ministro del Tesoro, oltre che della circolare del 24 maggio 1992 della Banca d’Italia (in G.U. 30 maggio 1992, n. 126), emessa in attuazione di detto decreto, la forma scritta non era obbligatoria per le operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto. La Banca d’Italia era facoltizzata dal decreto del Ministro del Tesoro, che si era sostituito per ragioni d’urgenza al CICR a mente dell’art. 6 D.L. 691/47, ad individuare "modalità particolari per i contratti relativi a operazioni e servizi che si innestano su rapporti preesistenti originati dai contratti redatti per iscritto". La circolare precisava che la forma scritta non era obbligatoria "... per operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto". Nel caso di specie, ha osservato la ricorrente, il contratto di conto corrente disciplinava compiutamente il contratto di apertura di credito, sì che tale ultimo contratto non doveva essere necessariamente stipulato per iscritto a pena di nullità. Va osservato che il decreto 24.4.1992 del Ministro del Tesoro e la circolare 24 maggio 1992 della Banca d’Italia erano state emanate in forza del terzo comma dell’art. 3 legge 154/1992. Anche dopo l’entrata in vigore del t.u. bancario, tuttavia, tali norme erano rimaste in vigore ai sensi dell’art. 161 del testo unico, che nell’abrogare insieme ad altre disposizioni la legge 154/1992 (ad eccezione dell’art. 10 che qui non interessa) stabiliva che "Le disposizioni emanate dalle autorità creditizie ai sensi di norme abrogate o sostituite continuano a essere applicate fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati ai sensi del presente decreto legislativo". In seguito la Banca d’Italia provvide ad emanare, sempre in esecuzione del decreto del Ministro del Tesoro del 24.4.1992, nell’ambito delle Istruzioni di vigilanza, nuove disposizioni che nel ribadire la regola generale secondo la quale "I contratti relativi alle operazioni e ai servizi sono redatti per iscritto ed un loro esemplare deve essere consegnato ai clienti", prevedevano che: "La forma scritta non è tuttavia obbligatoria: .... b) per operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto", regolando poi ulteriori ipotesi di esenzione che qui non interessano (cfr. Banca d’Italia, Istruzioni di vigilanza, - Parte 2^ - cap. 5^ - Trasparenza delle condizioni e dei servizi finanziari - agosto 1996). La delibera 4.3.2003 del C.I.C.R., nel dettare la nuova disciplina della trasparenza delle condizioni contrattuali delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, abrogando ai sensi dell’articolo 161, comma 5, del testo unico bancario, il decreto del Ministro del tesoro 24 aprile 1992 già citato, ha poi successivamente stabilito, per quanto attiene alla forma dei contratti, che "La Banca d’Italia può individuare forme diverse da quella scritta per le operazioni e i servizi effettuati sulla base di contratti redatti per iscritto, nonchè per le operazioni e i servizi, oggetto di pubblicità ai sensi della presente delibera, che hanno carattere occasionale ovvero comportano oneri di importo contenuto per il cliente". In virtù di tale disciplina le istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia, nel testo attualmente in vigore (risalente al luglio 2003) al Titolo 10^, capo 1^, n. 2, stabiliscono che: 2. Forma dei contratti. I contratti sono redatti per iscritto e un esemplare, comprensivo delle condizioni generali di contratto, è consegnato al cliente. La consegna è attestata mediante apposita sottoscrizione del cliente sull’esemplare del contratto conservato dalla banca. Nel caso di inosservanza della forma prescritta il contratto è nullo; la nullità può essere fatta valere solo dal cliente. La forma scritta non è obbligatoria: a) per le operazioni e i servizi effettuati in esecuzione di previsioni contenute in contratti redatti per iscritto; .....". La sentenza impugnata ha affermato che sulla base della disciplina di legge (art. 3 legge 154/1992 e art. 117 t.u.b.) il contratto di apertura di credito deve essere redatto per iscritto a pena di nullità e che a nulla rilevano eventuali disposizioni meno restrittive emanate in via amministrativa dalla Banca d’Italia. Tale affermazione non può essere condivisa. Le norme emanate dal CICR (nel 1992 in via d’urgenza, in sua sostituzione, dal Ministro del Tesoro) e dalla Banca d’Italia completano ed integrano la norma di legge, in virtù di una facoltà espressamente prevista dalla legge stessa. Non si tratta pertanto di atti amministrativi illegittimi perchè contra legem, ma di atti a contenuto ed efficacia normativi, emanati dal CICR e dall’Autorità di vigilanza nell’esercizio di unpotere espressamente loro attribuito dal legislatore. Tali norme integrano il precetto legislativo e, nei limiti consentiti dalla legge stessa, vi derogano, con la conseguenza che hanno natura di atti normativi, sia pur non di rango primario e debbono pertanto essere conosciute d’ufficio dal giudice, secondo il principio iura novit curia. E’ quindi irrilevante che la Circolare 24.5.1992 della Banca d’Italia e il decreto del Ministro del Tesoro non siano stati prodotti in giudizio da parte della Banca ricorrente, come ha eccepito la curatela. E’ stato osservato in dottrina che, ai sensi dell’art. 3, primo comma, legge n. 154/92 la deroga alla forma scritta poteva avvenire solo per motivate ragioni tecniche, mentre la Banca d’Italia nella già ricordata circolare non aveva tenuto conto di tale limite. Si era aggiunto che la lettera della legge consentiva alla Banca d’Italia di stabilire "particolari modalità per la forma dei contratti relativi a determinate categorie di operazioni e di servizi". Anche il decreto 24.4.1992 del Ministro del Tesoro prevedeva che la Banca d’Italia potesse individuare "modalità particolari" per i contratti relativi ad operazioni e servizi che si innestano su rapporti preesistenti originati da contratti redatti per iscritto. Tali modalità, si era detto, non potevano giungere sino alla totale soppressione della forma scritta, perchè in tal modo, di fatto, il contenuto della legge veniva svuotato. Tali rilievi, che già apparivano non convincenti alla luce della ratio legis, rappresentata dalla necessità di assicurare la regolarità dei traffici in situazioni in cui, per le particolari modalità della contrattazione, non poteva esigersi il rispetto della forma scritta, possono considerarsi sostanzialmente superati alla luce del disposto dell’art. 117, comma 2, t.u.b., già in vigore all’epoca in cui sarebbero stati posti in essere i contratti di apertura di credito per cui è causa. La norma, infatti, dispone, come già si è ricordato che "il CICR può prevedere che, per motivate ragioni tecniche, particolari contratti possano essere stipulati in altra forma", chiarendo quindi, in armonia con la ratio legislativa, che la deroga consentita al CICR ed all’Autorità di vigilanza permette di derogare all’obbligo della forma scritta. Anche l’omessa menzione nel provvedimento del Ministro del Tesoro e nella circolare della Banca d’Italia, come nei provvedimenti che si sono susseguiti successivamente, dell’indicazione delle "motivate ragioni tecniche" che giustificano la deroga alla forma scritta, sia ai sensi dell’art. 3 della legge 154/92 che dell’art. 117 t.u.b., non può essere considerata fonte d’illegittimità dei provvedimenti in parola, perchè l’onere di motivazione può ritenersi assolto con l’individuazione del tipo di contratto e la precisazione che esso deve riferirsi ad operazioni e servizi già individuati in contratti stipulati per iscritto. Dal 1992 a tutt’oggi le disposizioni della Banca d’Italia, a tanto autorizzata dal CICR, hanno sempre previsto, pur nel variare dei testi normativi, che non fosse richiesta la forma scritta per i contratti relativi ad operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto, tra cui il contratto di conto corrente, in base alla considerazione che costituisce sufficiente garanzia per il cliente che il contenuto normativo del contratto sia redatto per iscritto, mentre poi la sua concreta stipulazione, alle condizioni riportate nel contratto scritto, potrà avvenire in altra forma nel rispetto delle esigenze di celerità ed operatività che taluni tipi di contratti esigono. Venendo al caso di specie, è pacifico in causa che il contratto di apertura di credito era disciplinato dal contratto scritto di conto corrente in essere tra le parti, si che non può in nessun modo condividersi l’affermazione della sentenza impugnata che ha ritenuto che i contratti di apertura di credito che la banca ricorrente pretende che sarebbero stati stipulati tra le parti, sarebbero nulli per difetto di forma scritta. La sentenza impugnata ha peraltro escluso che parte ricorrente abbia provato la sussistenza di un contratto orale di apertura di credito. Nel venire ai rilievi con cui parte ricorrente censura le conclusioni cui è pervenuta la Corte d’appello, occorre osservare che questa Corte ha più volte affermato che le rimesse sul conto corrente dell’imprenditore poi fallito sono suscettibili di revocatoria fallimentare soltanto nell’ipotesi in cui il conto, all’atto della rimessa, risulti "scoperto" (intendendosi tale sia il conto nonassistito da apertura di credito che presenti un saldo a debito del cliente, sia il conto scoperto a seguito di sconfinamento dal fido convenzionalmente accordato al correntista). In siffatta situazione, secondo la distribuzione dell’onere probatorio prefigurata dall’art. 67 legge fall., alla curatela spetta la dimostrazione della sussistenza della rimessa, della sua effettuazione nel periodo "sospetto" e della "scientia decoctionis" del correntista, da parte della banca; mentre questa ha l’onere di provare, per escludere la natura "solutoria" del versamento, sia l’esistenza, alla data di questo, di un contratto di apertura di credito, sia l’esatto ammontare dell’affidamento accordato al correntista alla medesima data, non essendo sufficiente, a tali ultimi fini, la produzione della "scheda degli affidamenti" e dell’estratto notarile del "libro fidi" della banca, qualora il contenuto di detti documenti sia contestato dalla curatela e, comunque, gli stessi non abbiano un significato congruo rispetto al fatto da dimostrare (Sez. 1^, 23.6.1994, n. 6031, rv. 487167). Nel caso di specie la Corte di merito ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte, osservando che per provare l’esistenza del contratto di apertura di credito non costituivano prova sufficiente la disponibilità della banca a concedere il fido, comprovata dalla deliberazione interna relativa alla concessione del fido registrata sul libro fidi. Ha poi escluso che la tolleranza di fatto all’uso dell’affidamento costituisse prova sufficiente dell’avvenuta stipulazione del contratto, osservando che la ricorrente aveva dedotto l’esistenza del contratto di apertura di credito soltanto con la comparsa conclusionale nel giudizio di primo grado ed aveva inizialmente affermato, davanti al giudice di primo grado, che l’importo dell’affidamento era di 200 milioni di lire, per poi sostenere in appello, senza alcuna spiegazione, che tale importoera invece di 400 milioni. In conclusione la Corte ha valutato tutte le circostanze indicate dalla ricorrente come prova dell’avvenuta stipulazione del contratto di apertura di credito per facta concludentia, giusta la regola dettata dall’art. 1327 c.c., ed in particolare la tolleranza di fatto nell’utilizzo dell’affidamento risultante dalla movimentazione del conto comprovata dagli estratti conto prodotti in giudizio. Ha peraltro ritenuto con valutazione ampiamente argomentata, alla luce del comportamento processuale della ricorrente, e come tale incensurabile in questa sede, che la banca non avesse fornito la prova richiesta della sussistenza del contratto di apertura di credito ed in particolare dell’ammontare del fido accordato, circostanza questa sufficiente ad escludere il carattere ripristinatorio delle rimesse. I tre motivi vanno pertanto rigettati. Il quinto motivo del ricorso principale è manifestamente infondato e dunque inammissibile. La Corte d’appello ha qualificato le rimesse provenienti da terzi (USL) affluite sul conto corrente come pagamenti effettuati dai terzi in favore del fallito e non della banca, escludendo che vi fosse stato il pagamento da parte del terzo di un debito della società fallita verso la banca stessa. Ha conseguentemente affermato la natura solutoria della rimessa, che era valsa a ridurre il saldo passivo del conto scoperto. Afferma la ricorrente che avendo essa espletato il servizio di cassa in ragione della convenzione di conto corrente, i versamenti del terzo dovrebbero essere oggetto di revoca nei confronti di chi ha eseguito il pagamento. E’ peraltro evidente da un lato che nessuna azione revocatoria può configurarsi nei confronti del terzo in ragione della sua qualità di solvens, che ha provveduto al pagamento di un debito del fallito, e dall’altro che l’espletamento del servizio di cassa non esclude, per le considerazioni in precedenza svolte, il carattere solutorio della rimessa, effettuata su conto scoperto, e dunque la sua revocabilità. Il sesto motivo è inammissibile. La sentenza impugnata ha argomentato la sussistenza della scientia decoctionis da un complesso di elementi atti a fornire la prova presuntiva della consapevolezza da parte della banca della sussistenza dello stato d’insolvenza della società fallita. In sintesi i giudici d’appello hanno considerato l’iscrizione d’ipoteca sui beni della società fallita in forza di decreto ingiuntivo da parte di un creditore, l’iscrizione sui beni stessi di sequestro conservativo per opera di altro creditore, la presenza di perdite superiori al terzo del capitale sociale, il notevole sbilancio tra crediti e debiti, la relazione ad uso interno della banca in cui si dava atto della crisi di liquidità della società a fronte della mera "speranza" di ottenere un’inversione di tendenza in futuro, lo stesso irregolare andamento del conto corrente, sintomatico della carenza di liquidità. Nel lamentare il vizio di motivazione in ordine alla scientia decoctionis la ricorrente da un lato non considera il complesso di elementi probatori valutati dalla Corte di merito, accentrando le sue censure su alcuni di essi soltanto (la portata dell’annotazione del funzionario proponente la concessione di fido, redatta a fini interni della banca, l’andamento del saldo debitore del conto e la mancanza di un rientro della banca nonostante il ridursi di tale saldo). Dall’altro lungi dal mettere in rilievo la presunta contraddittorietà ed insufficienza di motivazione della sentenza impugnata, pretende di sostituire alla valutazione delle risultanze probatorie compiute dalla sentenza una diversa valutazione, formulando quindi una censura inammissibile in questa sede. Il ricorso incidentale della curatela è inammissibile. Nel dolersi che la Corte di merito abbia disatteso le risultanze della nota spese, la curatela si è limitata ad indicare il totale degli onorari, dei diritti di procuratore e degli esposti riportati in nota spese ed a lamentare che la sentenza impugnata si sia discostata da tali importi senza motivare in proposito. Questa Corte ha più volte affermato che il giudice non può discostarsi nella liquidazione delle spese dalle somme indicate nella nota spese depositata in atti, allo scopo di consentire, l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe, in relazione alla inderogabilità dei relativi minimi, a norma dell’art. 24 della legge n. 794 del 1942 (Cass., sez. Lavoro, 1.8.2003, n. 11483). E’ pertanto indispensabile che il ricorrente indichi le varie voci che compongono la nota spese e non soltanto i totali, con la conseguenza che in difetto il ricorso incorre nel vizio di genericità e va pertanto dichiarato inammissibile. Le spese seguono la prevalente soccombenza e vanno pertanto poste a carico della ricorrente principale, liquidate in euro 15.000 per onorari ed euro 100 per spese, oltre spese generali ed accessorie come per legge. P.Q.M. La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Condanna la ricorrente principale alle spese, che liquida in euro 15.100, di cui euro 15.000 per onorari, oltre spese generali ed accessorie come per legge. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 19 aprile 2005. Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2005.

21/10/2005

Documento n.5193

Sostieni i consumatori, sostieni ADUSBEF!

Puoi sostenere ADUSBEF anche attraverso il 5 x 1000: in fase di dichiarazione, indica il codice fiscale 03638881007

Informativa sull'uso dei Cookies

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.OK