TREMONTI: LA PERICOLOSA ECONOMIA DEL DEBITO

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Focus, Crisi e governi Corriere.it La pericolosa economia del debito Quello pubblico supera i 1700 miliardi Il rischio per i privati? Imitare l’America Passate le elezioni europee, restano i debiti. L’Italia ha ricominciato ad accumulare debito pubblico. A marzo aveva superato i 1700 miliardi di euro. Alla fine dell’anno, secondo il Fondo monetario internazionale, arriverà al 109% del prodotto interno lordo. Nel 2012 supererà il 115%. Non sfonderemo il tetto del 120% come nei primi anni Novanta, se contiamo secondo il Trattato di Maastricht, sfioreremo il 130% nel 2014 contando come fa l’Ocse. Ma resta il fatto che la tendenza al riequilibrio dei conti pubblici, a suo tempo considerata la condizione prima per entrare in Eurolandia, è ormai invertita. Eppure non sta suonando nessun vero allarme. The Economist titola: «Debito, il conto più salato della storia». E aggiunge la preghiera dei governi: «Signore, rendimi prudente, ma non subito». La paura della recessione fa premio sulla paura del debito: primum vivere. Ma ce lo possiamo permettere? Ovunque gli Stati sorreggono l’economia facendo spese finanziate con nuove obbligazioni del Tesoro. Nel 2007, prima della tempesta, le economie del G20 avevano un debito pubblico medio del 78% della ricchezza generata ogni anno. Il Fondo monetario stima che nel 2014 raggiungeranno il 106%. Nei primi anni Novanta, l’Italia era l’unica media potenza, con il Belgio, ad avere i conti pubblici disastrati. Oggi è in buona compagnia. Ma a far sembrare oggi meno preoccupante il debito pubblico c’è anche un pensiero a lungo teorizzato dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: se una crisi tanto grave deriva da un eccesso di debito di famiglie e finanza, che ha innescato le insolvenze, non si deve più considerare soltanto il debito pubblico, ma si deve guardare anche il debito del settore privato. E questo in Italia è meno pesante rispetto agli Usa, Paese preso a modello da almeno 20 anni. L’osservazione è vera, ma basta per rassicurare? Se la debt economy è una malattia, il Belpaese non può dirsi al riparo. Secondo la Banca d’Italia (che fa i conti secondo Maastricht e non secondo l’Ocse), nel 1995 il debito di famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni era pari al 189,6% del Pil. Nel 2007 era salito al 210% e nel 2008 al 224,9%. Al dato globale concorre sempre meno lo Stato, ma ora, come abbiamo visto, sta riprendendo alla grande. E sempre più vi concorre il settore privato: in 15 anni l’esposizione delle famiglie sale dal 18 al 39% e quella delle imprese dal 53 all’80%. Certo, il modello Usa presenta altri numeri. Secondo l’Ocse, unica fonte di informazioni comparabili su scala mondiale, il debito lordo globale (banche escluse) degli Usa era pari al 376% del Pil contro uno italiano del 297%. Nel 2007, alla vigilia della recessione, il debito lordo americano era salito al 464% del Pil mentre quello italiano era arrivato al 377%. Nei successivi 15 mesi, stando al rendiconto della Fed in attesa di elaborazione all’Ocse, il debito lordo globale è cresciuto di un altro 6%. Il confronto con la stella polare americana ci dice che, nel periodo 1995-2007, negli anni del boom prima della tempesta, l’Italia ha aumentato il suo debito globale di 27 punti di Pil% contro i 23 degli Usa. Dunque, la necessità di un rientro non tocca solo il mondo anglosassone delle investment banks,ma anche l’Italia dei distretti industriali virtuosi e delle partite Iva. E questo tempera le ragioni dell’ottimismo tremontiano. Ma gli stessi numeri fanno emergere un grande problema politico. L’Italia come sistema è oggi meno indebitata degli Stati Uniti. Ma lo era anche ieri, nel 1995, quando pochi scommettevano sulla sua capacità di entrare nell’euro. Si può oggi ironizzare, come ha fatto Marco Fortis intervenendo nel dibattito del Sole 24 Ore sul futuro del capitalismo, osservando che il malato d’Europa non è più l’Italia, ma la Gran Bretagna o l’Irlanda, le star della vulgata liberista. Resta il fatto che, con quei conti pubblici, l’Italia ha dovuto arginare i salari, ridurre la spesa per le pensioni, privatizzare monopoli pubblici anche a costo di renderli preda della speculazione finanziaria e di indebolirli sul piano industriale, Telecom docet. Alcune di queste manovre, specialmente la riforma delle pensioni, sarebbero state comunque necessarie e probabilmente non sono nemmeno sufficienti con il progressivo invecchiamento della popolazione. Ma va detto che, nello stesso anno, gli Usa, come sistema, erano già più indebitati dell’Italia ed erano tuttavia considerati esempio di virtù. Il Fondo monetario non ha mai nemmeno pensato che potesse esistere un rischio Paese chiamato Usa. Solo adesso avvierà rispettosi monitoraggi. Un dato fa riflettere. Il 21% del Pil americano è costituito da ricchezza netta attratta dall’estero, soprattutto emettendo azioni. Poiché il Pil americano pesa per 14 mila miliardi di dollari, stiamo parlando di un finanziamento estero soprattutto in conto capitale di quasi tremila miliardi di dollari. L’Italia è sotto il 2%, oggi come nel 1995. Secondo l’Ocse, le azioni estere possedute da americani sono aumentate dal 16,7% del Pil del 1995 al 40,2% del 2007, ma quelle cedute da emittenti americane a investitori esteri sono salite da 23,2 al 62,2% del Pil con una velocità che negli ultimi 5 anni ha subito una clamorosa impennata. Alcuni giocatori di poker, quando perdono, raddoppiano la puntata nella speranza di recuperare tutto. Tentano, si dice in gergo, la «martingala ». Sulla carta, per chi disponesse di un capitale infinito, il successo sarebbe garantito perché un bel giorno la mano buona non può non venire. Al tavolo verde, però, è il massimo dei rischi e gli altri giocatori chiedono garanzie. Negli ultimi anni, gli Usa si sono indebitati a ritmi crescenti nella convinzione che, essendo il dollaro la moneta di riserva del mondo, avrebbero potuto emettere debito in dollari a volontà. Ora i Paesi più virtuosi, la Cina e la Germania, non sembrano più tanto disposti concedere al dottor Bernanke il diritto alla martingala. Il cancelliere Angela Merkel chiede un maggior impegno per la stabilità alla stessa Banca centrale europea e Zhou Xiaochuan, banchiere centrale cinese, ha già proposto, con un breve saggio disponibile sul sito della People’s Bank of China, di sostituire il dollaro con i diritti speciali di prelievo costituiti da un paniere delle monete più importanti. E nonostante il fermo rigetto americano, continua a parlarne con i colleghi del G20. Ma questo non comporta automaticamente un vantaggio per l’Italia, il cui debito pubblico è in parte collocato all’estero. Certo, si può apprezzare la minor insidia che può arrivare dal settore privato, e tuttavia è lecito chiedersi quanta parte della ricchezza delle famiglie, che possono investire a loro volta in titoli esteri, sia in effetti disponibile quale garanzia della mano pubblica italiana e come l’economia sarà in grado di generare entrate fiscali per pagare gli interessi e ridurre l’esposizione. Alla fine, saranno i tassi d’interesse, che misurano la percezione del rischio da parte dei mercati, a stabilire se ha ragione Tremonti o l’Economist che continua a guardare soltanto al debito pubblico. Massimo Mucchetti

13/06/2009

Documento n.7978

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