Senato. Interrogazioni di Elio Lannutti su: Sole 24 ore, Debito pubblico della Germania, situazione Alitalia, Società di rating, Evasione fiscale

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LANNUTTI - Ai Ministri della giustizia, dell'economia e delle finanze e dello sviluppo economico - Premesso che: sul quotidiano di Confindustria "Il Sole 24 Ore" del 7 settembre 2011, che non sembra più godere negli ultimi tempi del favore dei lettori avendo perso migliaia di copie vendute in edicola e/o in abbonamento ogni giorno, probabilmente a parere dell'interrogante anche a causa di una informazione troppo partigiana fornita da taluni giornalisti embedded arruolati alla causa dei grandi potentati economici e/o di sedicenti autorità di controllo dei mercati, è apparsa a pagina 44 di spalla, nella sezione di finanza internazionale nella rubrica "Parterre" in bella evidenza una notizia dal titolo: "Se Vegas sanziona sia banca che bancario", con la sigla R.Sa. Si legge testualmente: «Il destino, talvolta, è crudele. La Consob ha pubblicato ieri sul proprio Bollettino la sanzione di 80mila euro irrogata nei confronti della responsabile di una filiale UniCredit di Reggio Emilia (ex-Bipop), Maria Carmela Maniscalco, colpevole di aver trasmesso alla clientela false rendicontazioni che attestavano il costante incremento del patrimonio gestito nonché di aver eseguito operazioni non autorizzate dagli investitori. È stato l' audit interno della banca a scoprire le irregolarità, a licenziare in tronco la funzionaria ed a rifondere i propri clienti dei danni arrecati per la non trascurabile somma di 20 milioni di euro. Ed ora anche lo stesso istituto di credito è stato ritenuto responsabile in solido ed obbligato dalla Consob al pagamento di una sanzione di 80mila euro salvo cercare di esercitare il regresso nei confronti della Maniscalco a favore della quale a gennaio era intervenuto, con un' interrogazione parlamentare, il presidente dell'Adusbef Elio Lannutti. Evidentemente male informato. (R.Sa.)». La sigla R.Sa., da una ricerca telefonica effettuata in data odierna dall'interrogante nella redazione de "Il Sole 24 Ore", corrisponde indubbiamente a quella di Riccardo Sabbatini, giornalista professionista che ha prestato la sua opera professionale proprio nell'ufficio stampa della Consob; considerato che: le norme disciplinari che regolano il lavoro dei giornalisti sono in massima parte contenute nella Carta dei doveri, siglata l'8 luglio 1993 dal Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti e dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana. Molte di queste sono poi state recepite dal codice di deontologia del 1998; il dovere più pregnante del giornalista e caposaldo del diritto di cronaca è il dovere di verità, considerato sia dalla legge n. 69 del 1963 che dalla stessa Carta dei doveri quale "obbligo inderogabile". Gli organi di informazione sono l'anello di congiunzione tra il fatto e la collettività. Essi consentono alla collettività l'esercizio di quella sovranità che secondo l'art. 1 della Costituzione "appartiene al popolo". Un'informazione che occulta o distorce la realtà dei fatti impedisce alla collettività un consapevole esercizio della sovranità; in più punti la Carta dei doveri pone l'accento su quelli che, al pari del dovere di verità, vanno considerati valori etici assolutamente inderogabili: l'autonomia e la credibilità del giornalista; l'autonomia del giornalista serve a garantire l'obiettività dell'informazione. L'informazione obiettiva serve unicamente la collettività, ossia persegue un interesse generale. Il dovere di autonomia vuole impedire che la funzione giornalistica venga subordinata ad interessi particolari. È evidente, quindi, che particolari rapporti del giornalista con soggetti interessati ad una informazione compiacente sono visti come il fumo negli occhi; tuttavia, non basta qualsiasi tipo di contatto a gettare un'ombra sulla professionalità del giornalista. Anzi, rapporti con i più disparati ambienti sono indispensabili per poter acquisire le notizie e garantire un'informazione precisa, dettagliata. La Carta dei doveri vuole stigmatizzare non tanto il rapporto, quanto quegli elementi presenti in esso che indicano uno stato di sudditanza del giornalista o un interesse in conflitto con il dovere di verità. Insomma, casi il cui verificarsi ingenera quantomeno il dubbio sulla reale capacità o volontà del giornalista di dare vita ad un'informazione obiettiva. Casi difficilmente preventivabili. Ma la Carta dei doveri tenta una "tipizzazione" di quelle situazioni in presenza delle quali si presume che l'autonomia e la credibilità del giornalista vengano meno. Innanzitutto, stigmatizzando l'adesione del giornalista "ad associazioni segrete o comunque in contrasto con l'articolo 18 della Costituzione" (norma che vieta appunto "le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare"). Qui sono la natura antidemocratica, il perseguimento di scopi illegittimi e l'impenetrabilità della struttura cui il giornalista aderisce a minarne l'autonomia e la credibilità (si pensi all'adesione di giornalisti ad associazioni come la "P2"); facendo una disamina dell'attività informativa di Riccardo Sabbatini, un giornalista del quotidiano "Il Sole 24 Ore" e "Plus" (l'inserto del sabato), si evince che egli è solito scrivere articoli su banche, finanza, assicurazioni, autorità a giudizio dell'interrogante pseudo indipendenti, quali Consob ed Isvap, ponendosi quasi mai dalla parte del lettore, che pur avrebbe diritto di ricevere un'informazione veritiera, obiettiva, equilibrata, ma per lo più schierandosi piuttosto dalla parte di interessi aziendali quali quelli di banche, compagnie di assicurazioni, Isvap e Consob, diventando quindi una sorta di portavoce occulto del verbo aziendale, alla stessa stregua dei giornalisti embedded; non è la prima volta che i giornalisti del quotidiano "Il Sole 24 Ore" surrogano le mancate risposte del Governo agli atti di sindacato ispettivo dell'interrogante, riportando le veline della Banca d'Italia e della Consob, si chiede di sapere: se risulti al Governo che il giornalista Riccardo Sabbatini abbia prestato la sua attività nell'ufficio stampa della Consob, ciò che ad avviso dell'interrogante dovrebbe sulla base del codice di deontologia indurlo a non scrivere articoli riguardanti un'autorità condannata spesso dalla magistratura per omessa vigilanza, nonché, a giudizio dell'interrogante, corresponsabile di una lunga catena di crac finanziari ed industriali che hanno distrutto 50 miliardi di euro ad un milione di famiglie; se il Governo non intenda assumere iniziative di competenza volte ad attivare un attento monitoraggio su articoli spesso fuorvianti e poco obiettivi pubblicati negli ultimi 5 anni dal quotidiano "Il Sole 24 Ore" a firma di Riccardo Sabbatini, per verificarne aspetti lesivi dei diritti dei lettori e dell'opinione pubblica, specie nel delicato settore economico-finanziario, nonché al fine di appurare che sia stato rispettato il codice deontologico; quali iniziative il Ministro della giustizia intenda assumere presso l'ordine professionale di appartenenza del giornalista Riccardo Sabbatini per valutare eventuali violazioni della Carta dei doveri e della deontologia professionale, che impedisce ai professionisti di riportare informazioni squilibrate e veline acritiche dei potentati economici, di banche, assicurazioni e autorità di vigilanza (di cui l'interrogante pone in dubbio il carattere di indipendenza). (4-05818) Interrogazioni LANNUTTI - Ai Ministri dell'economia e delle finanze e della giustizia - Premesso che: in un articolo pubblicato il 7 settembre 2011 in prima pagina su "Finanza e Mercati" dal titolo: "Derivati, il Tribunale gela Unicredit", Sofia Fraschini riporta una sentenza del Tribunale di Milano, che ancora una volta ha censurato i derivati avariati collocati, durante la gestione di Profumo, presso enti locali e piccole e medie imprese spesso ridotte all'insolvenza; si legge nel citato articolo: «Doccia fredda per Unicredit nella causa derivati con la Provincia di Pisa. Secondo il documento consultato da F&M, il giudice del Tribunale di Milano Silvia Brat ha respinto la richiesta della banca di portare in aula prove testimoniali e ha appoggiato l'ente locale avviando la verifica dei costi occulti che sarebbero stati caricati dalla banca su un derivato da 80,14 milioni. Un titolo stipulato in due tranche nel 2011 e in scadenza nel 2015. La querelle tra Unicredit e Pisa ha avuto inizio nel 2009 quando l'amministrazione ha annullato gli atti in autotutela dopo aver calcolato in 1,2 milioni i costi di transazione e i margini di intermediazione. Saltata ogni soluzione transattiva tra le parti, la questione è approdata al Tribunale di Milano nel 2010. "E oggi - commenta a F&M il direttore generale della Provincia, Giuliano Palagi - si trova a un punto di svolta. La decisione del giudice di nominare consulenti tecnici dimostra infatti la validità della nostra decisione di annullare in autotutela i contratti. Inoltre, siamo fiduciosi, perché il riconoscimento dei costi occulti potrebbe dimostrare che i derivati erano viziati e quindi portare al definitivo annullamento del contratto". Aspettando di conoscere l'esito della verifica, il 17 novembre, per la Provincia di Pisa - e anche per tutti gli enti locali italiani - resta ancora aperta un'altra partita che potrebbe innescare un'ondata di cause per almeno 30 miliardi tra banche ed amministrazioni. Si tratta dell'ormai famoso contenzioso tra la Provincia di Pisa e l'accoppiata Dexia-Depfa per il quale l'amministrazione toscana sta aspettando da oltre tre mesi la sentenza dal Consiglio di Stato.Un vero e proprio giallo poiché pare che il verdetto sia stato scritto, ma la pubblicazione del provvedimento sia stata bloccata. Sul piatto c'è il potenziale riconoscimento della caducazione del contratto e un quindi un precedente che, se confermato, rappresenterebbe un'occasione per tutti gli enti locali. Difficile non pensare che la mancanza di una normativa sui derivati (annunciata e mai arrivata) e la complessa situazione delle banche italiane non abbiano influito sulla mancata decisione. In ogni caso, "aspettiamo fiduciosi" spiega Palagi annunciando l'invio di una lettera di sollecitazioni al Consiglio di Stato. "La Provincia deve sapere come muoversi - ha concluso - in questo difficile momento finanziario in cui eventuali accantonamenti devono almeno essere programmati", si chiede di sapere: se risulti che Unicredit, sotto la censurabile direzione di Profumo, allontanato con una liquidazione di 40 milioni di euro con oscure motivazioni, abbia collocato caterve di derivati presso imprese ed enti locali con sistemi incentivanti e premialità di vantaggio per quei dirigenti, come Mereghetti, sempre coperto dall'ex amministratore delegato, che consumavano la futura "truffa" e che finora non hanno ancora pagato il conto; se la querelle tra Unicredit e la Provincia di Pisa non debba indurre il Ministro dell'economia e delle finanze a rafforzare la disciplina sanzionatoria volta a disincentivare casi come quello di Unicredit e gestioni come quelle dell'ex amministratore delegato Profumo che, a giudizio dell'interrogante, invece di essere conteso come "salvatore della Patria" dovrebbe rispondere penalmente per gli enormi danni inflitti alle piccole e medie imprese ed agli enti locali super indebitati; se i costi occulti non siano la dimostrazione lampante di derivati viziati, con la nullità totale del contratto, ovvero la possibilità di un suo annullamento; se risulti la ragione per cui non sia stato ancora pubblicato il verdetto da parte del Consiglio di Stato; quali misure urgenti il Governo intenda adottare per garantire che banchieri avidi ed irresponsabili, a cominciare da Profumo, indagati da alcune Procure della Repubblica, possano pagare per i comportamenti truffaldini con l'aggravante della serialità. (3-02375) LANNUTTI - Ai Ministri degli affari esteri e dell'economia e delle finanze - Premesso che: in un articolo pubblicato oggi su "Il Corriere della sera", Massimo Mucchetti esamina attentamente il debito pubblico tedesco: «Angela Merkel paragona l'Italia alla Grecia. Per quanto si possa dir male del nostro governo, il cancelliere sbaglia. Roma non ha mai mentito sui suoi conti pubblici come ha fatto Atene. E poi la Germania dovrebbe comunque rispettare un partner commerciale dove esporta più che in Cina. E infine, quanto a debito pubblico, il governo di Berlino si avvale di antiche furbizie. Che, alla vigilia della sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe sui salvataggi già fatti e in vista della seduta del Bundestag di fine mese sul piano salva Stati, vale la pena di ricordare. Da 16 anni la Germania non include nel suo debito pubblico le passività del Kreditanstalt für Wiederaufbau, meglio noto come KfW, posseduto all'80% dallo Stato e al 20% dai Länder, altri soggetti pubblici. Si tratta di 428 miliardi di euro interamente garantiti dalla Repubblica federale. La KfW fa mutui a enti locali e piccole e medie imprese. Detiene partecipazioni cruciali in colossi come Deutsche Post e Deutsche Telekom. È vigilata dai ministeri delle Finanze e dell'Industria, non dalla Bundesbank. Grazie al legame di ferro con lo Stato, la KfW conquista la medaglia d'oro nella classifica mondiale dell'affidabilità, stilata da Global Finance, e il massimo rating da parte di Moody's, Standard & Poor's e Fitch, lo stesso della Repubblica federale. Le sue obbligazioni sono dunque uguali ai bund. Ma a differenza dei bund, magicamente non entrano nel conto del debito pubblico. Se vi entrassero come la logica del Trattato di Maastricht vorrebbe, il debito pubblico tedesco salirebbe da 2.076 miliardi a 2.504 e la sua incidenza sul prodotto interno lordo 2011 balzerebbe dall'80,7% al 97,4%. Ancora un piccolo passo, magari per salvare qualche banca tedesca ingolosita dai titoli di Stato mediterranei, e potremmo dire: benvenuta Germania tra noi del club degli over 100%! La magia, che nasconde il 17% del debito pubblico reale tedesco, si chiama Esa95. È il manuale contabile che esclude dal debito pubblico, a integrazione dei criteri di Maastricht, le società pubbliche che si finanziano con pubbliche garanzie ma che coprono il 50,1% dei propri costi con ricavi di mercato e non con versamenti pubblici, tasse e contributi. La serietà di un tale principio è paragonabile alla considerazione del rischio di controparte negli Ias-Ifrs, i principi contabili che hanno favorito il crac Lehman. Se per ipotesi KfW avesse problemi, chi pagherebbe? Lo Stato. E senza nemmeno l'ipocrisia degli Usa che qualificavano le loro Fanny Mae, Freddie Mac e Ginnie Mae come imprese sponsorizzate dal governo per far capire che, alla bisogna, il Tesoro avrebbe coperto, ma senza dirle statali per non sembrare statalisti. Ora l'Italia ha la Cassa depositi e prestiti, 70% Tesoro, 30% fondazioni bancarie, soggetti privati. La Cdp emette anno dopo anno obbligazioni che godono della garanzia statale e sono collocate dalle Poste sotto forma di buoni e di libretti. Mal contati sono 300 miliardi, due terzi reinvestiti in titoli di Stato e un terzo in mutui agli enti locali. La Cdp emette anche obbligazioni non garantite per una ventina di miliardi destinate alle iniziative per le imprese e detiene partecipazioni rilevanti. Ma il suo debito è per tutta la parte coperta da garanzia pubblica conteggiato nel debito pubblico. In un mondo serio delle due l'una: o la Germania ricalcola il suo debito come si deve perché l'Eurozona sotto attacco non accetta più furbizie da parte di nessuno, ancorché legalizzate a forza, oppure l'Italia deconsolida dal suo debito pubblico quei cento miliardi o giù di lì che la Cdp usa per gli enti locali, dato che questi la scelgono su un mercato bancario liberalizzato. Risulta che il ministro Giulio Tremonti abbia talvolta accennato al tema. Ma quando un governo vuole incidere, compie passi formali, il premier si mobilita, si muove anche il ministero degli Esteri. Si fa sentire sui giornali e in tv. E se i media non capiscono, insiste: nessuno negherà un'intervista a un ministro che voglia alzare la voce. Ma nell'Italia di oggi quest'ipotetica voce avrebbe un suono fesso. Nessuno, lontano da Roma, le presterebbe attenzione. Il punto è la credibilità. La Germania ne ha anche quando fa il gioco delle tre carte. All'Italia manca anche di fronte alla verità», si chiede di sapere: se a quanto risulta al Governo risponda al vero che il Governo di Berlino si avvale di "antiche furbizie" per classificare il suo debito poiché da 16 anni la Germania non includerebbe nel suo debito pubblico le passività del Kreditanstalt für Wiederaufbau, posseduto all'80 per cento dallo Stato e al 20 per cento dai Länder; ossia 428 miliardi di euro interamente garantiti dalla Repubblica federale; se sia vero che, grazie al legame di ferro con lo Stato, la KfW conquista la medaglia d'oro nella classifica mondiale dell'affidabilità, stilata da "Global Finance", e il massimo rating da parte di Moody's, Standard & Poor's e Fitch, lo stesso della Repubblica federale, con le sue obbligazioni che, a differenza dei bund, singolarmente non entrano nel conto del debito pubblico, posto che, se vi entrassero come la logica del Trattato di Maastricht vorrebbe, il debito pubblico tedesco salirebbe da 2.076 miliardi a 2.504 e la sua incidenza sul prodotto interno lordo 2011 balzerebbe dall'80,7 per cento al 97,4 per cento; se l'artificio, che nasconde il 17 per cento del debito pubblico reale tedesco in rapporto al PIL, sia dato dal Esa95, ossia il manuale contabile che esclude dal debito pubblico, a integrazione dei criteri di Maastricht, le società pubbliche che si finanziano con pubbliche garanzie ma che coprono il 50,1 per cento dei propri costi con ricavi di mercato e non con versamenti pubblici, tasse e contributi; quali misure urgenti il Governo intenda attivare in sede europea, anche per evitare che la Germania, che tutti i giorni offre lezioni all'Italia sulla tenuta dei conti pubblici, non ricorra ad artifizi contabili per evitare di essere annoverata nel club dei Paesi che, nonostante il massimo di affidabilità nella valutazione delle agenzie di rating, rischiano eventuali insolvenze distruggendo in tal modo in maniera definitiva il progetto dell'Europa unica. (4-05822) LANNUTTI - Al Ministro dell'economia e delle finanze - Premesso che: le associazioni dei consumatori (tra cui Adiconsum, Adoc, Cittadinanzattiva, Federconsumatori e Movimento Consumatori), qualche giorno fa hanno redatto una nota congiunta a seguito della scelta della compagnia di bandiera di cambiare il numero di assistenza al cliente da uno a rete fissa (06 2222) a un 892, «un numero a tariffa maggiorata» (dicono le associazioni), a partire dal 23 agosto 2012. Si legge su un articolo pubblicato su "Il Corriere della Sera" il 12 agosto 2011: «"Nessuna comunicazione preventiva". "Al diavolo il tavolo di concertazione che avevamo attivato con Alitalia da più di anno con ottimi risultati soprattutto sul tema della conciliazione". E ancora: "ulteriore balzello per i consumatori, soprattutto nel mese di agosto quando a pagare il conto non è la clientela business". (...) Secondo i numeri diffusi dalle associazioni il differenziale di costo per il cliente finale - che decide di interfacciarsi con Alitalia attraverso il tradizionale mezzo telefonico - è compreso tra i 12 e 15,5 centesimi di scatto alla risposta (il costo attualmente è zero se si telefona da un numero di rete fissa e si hanno le telefonate gratuite ai numeri urbani e interurbani come previsto da alcuni piani tariffari) e un minimo di 48 centesimi (Tim) ad un massimo di 1,80 euro (H3G) al minuto chiamando da un dispositivo mobile (anche se dicono fonti interne ad Alitalia è stato già firmato un pre-accordo anche Vodafone e Wind per ridurre il costo a 49 centesimi al minuto). "Costi che si aggiungono - dice Pietro Giordano, segretario generale Adiconsum - ai 6 euro canonici, balzello per chi compra un biglietto aereo per via telefonica". E Carlo Pileri, presidente Adoc, pone l'accento su una policy aziendale - questa presunta di Alitalia - "tipica delle compagnie low cost che per core business incentivano il mezzo internet e scoraggiano, per l'appunto, i clienti ad alzare la cornetta"»; le associazioni sostengono che ogni decisione con impatto diretto sulle tasche dei cittadini avrebbe dovuto coinvolgere le associazioni dei consumatori firmatarie del recente accordo in tema di conciliazione, per trovare insieme le soluzioni più adeguate; esse ritengono inaccettabile avviare prima il servizio e poi richiedere ai singoli operatori telefonici di calmierare le tariffe a 49 centesimi di euro al minuto, come da comunicazioni ufficiali Alitalia, un livello comunque elevato per chi dovrebbe offrire un servizio volto a far volare i propri clienti, e non a farli parlare a telefono; dall'estero la telefonata costa meno perché per chi si trova fuori dall'Italia resiste il numero di Roma (seppur diverso, è il +39 0665649); si legge nel citato articolo che in risposta la compagnia si difende «ponendo l'accento sulle politiche di prezzo dei principali competitors su scala internazionale, come Iberia (41 centesimi al minuto), Air France (34 cent) e Meridiana (un euro al minuto). Evidenziando le politiche sulla leva del prezzo da parte di Trenitalia che fa pagare 54 centesimi al minuto per la prenotazione telefonica e 30 cent alla risposta. E accentuando gli investimenti sui dispositivi mobili (con app dedicate per iPhone e iPad, Windows Mobile e sulla piattaforma Android, attraverso le quali si possono già acquistare biglietti di volo Alitalia) e sui social network (la pagina Facebook ha ottenuto più di 500mila fan in pochi mesi e anche attraverso il popolare sito ideato da Zuckerberg è possibile comunicare con la compagnia). Infine - segnalano i vertici delle compagnia - "esiste il 65640 per reclami, inadempienze e per passeggeri con problemi di mobilità ed è un numero di rete fissa". Tutto vero, resta il fatto che l'Italia ha ancora enormi problemi di digital divide e non tutti hanno dispositivi per connettersi in rete», si chiede di sapere: se risultino al Governo i motivi per cui, alla luce delle nuove disposizioni dell'Alitalia, mentre prima per avere una qualsiasi informazione bastava una chiamata urbana ovvero il costo era pari a quello di una telefonata su numero fisso, ora invece il costo per chiamare 892010 risulta altamente maggiorato, per cui la compagnia sta penalizzando il consumatore, che avrà l'incubo della cornetta e, con tutta probabilità, preferirà le più comode operazioni on line, che non richiedono, peraltro, nessun costo aggiuntivo; se non ritenga che, se l'intento della compagnia di bandiera è disincentivare il mezzo telefonico per l'acquisto dei biglietti, a favore delle operazioni on line, si è scelta con tutta evidenza la soluzione più penalizzante per i consumatori, in quanto, a parità di servizio offerto, i prezzi decolleranno; se sia conoscenza di chi vigilerà per impedire le inutili ma redditizie attese al telefono degli utenti considerato che, nel merito, la fusione tra Alitalia e AirOne ha di fatto creato una sostanziale condizione di monopolio per le tratte nazionali che oggi non può tradursi in un guadagno illegittimo a scapito dei consumatori che decidono di rivolgersi al customer center Alitalia. (4-05823) LANNUTTI - Al Ministro dell'economia e delle finanze - Premesso che: nessuna delle tre maggiori agenzie di rating ha finora ottenuto il via libera alla registrazione dell'Unione europea (UE). Ma il traguardo che Moody's e Standard & Poor's non sono ancora riuscite a raggiungere (nonostante la domanda sia stata presentata un anno fa) è già nel cassetto della Bulgarian Credit Rating Agency, una delle nove società già in regola con i regolamenti europei; gli altri gruppi finora autorizzati dall'Esma, l'autorità europea dei mercati, presieduta da Steven Maijoor, sono soprattutto tedeschi (sei). Ma nell'elenco ci sono anche un'agenzia greca (Icap Group) e una giapponese (Japan Credit Rating Agency); queste nove agenzie hanno già dimostrato di avere i requisiti necessari e hanno superato l'intero percorso previsto dal regolamento europeo. Resta la pesante assenza delle tre maggiori società; per le agenzie minori è più facile ottenere il via libera, perché è necessario l'ok delle autorità competenti dei Paesi in cui si è presenti, oltre a quello dell'Esma; i nove gruppi operano prevalentemente a livello locale (ma non solo) e perciò il cammino per loro è abbreviato (nessuno dei nove è attivo in Italia); tuttavia il paradosso rimane: le piccole agenzie sono già in possesso del principale pre-requisito per emettere rating in Europa, come previsto dal regolamento UE, mentre i gruppi maggiori non sono stati finora capaci di ottenerlo; il termine per la presentazione delle domande è scaduto nel settembre 2010; dunque ai tre big non è bastato un anno per convincere i regolatori; in Italia, dove sulle agenzie è anche in corso un'indagine della Procura di Trani, la Consob ha espresso perplessità su Moody's e S&P e ha inviato all'Esma un parere negativo alla loro registrazione. Non sono noti i dettagli delle critiche rivolte, ma la Commissione ha chiesto di adeguare le procedure al fine di renderle pienamente aderenti alla normativa europea; e le procedure dovrebbero essere affidabili ovunque allo stesso modo, a Sofia come a Londra; del resto anche l'agenzia bulgara (una società privata nata nel 2003) si esprime su banche, imprese, holding, fondi pensione ed enti pubblici; la società greca ha lo stesso perimetro di attività. L'agenzia giapponese valuta anche gli Stati: il rating sull'Italia (AA) è stato confermato a marzo con outlook stabile; nessun gruppo tra questi, però, neppure tra quelli tedeschi, è mai riuscito a intaccare il monopolio dei tre leader; considerato che: soprattutto Moody's e Standard e Poor's, i cui responsabili per l'Europa sono indagati penalmente per i rapporti emessi a cominciare dal 6 maggio 2010, non potranno d'ora in poi continuare a dare le loro pagelle sull'Italia, perché non avendo superato l'esame di guida risultano senza patente e non potranno continuare a guidare con il foglio rosa, ma qualora dovessero continuare ad operare lo faranno a loro rischio e pericolo, essendo più facile per Adusbef e Federconsumatori citarle in giudizio anche in sede civile per i congrui risarcimenti dei danni provocati; le tre sorelle del rating, ampiamente ed universalmente screditate in maniera clamorosa con il fallimento di Lehman Brothers nel 2008, quando fino all'ultimo momento non si accorsero di nulla, dopo aver miseramente fallito nei loro giudizi sui sub-prime l'anno precedente, ennesimo grande incidente di percorso più recente delle agenzie, hanno indotto il Dipartimento di giustizia Usa ad aprire un'inchiesta sui giudizi (sbagliati) attribuiti da Standard & Poor's ad alcuni prodotti legati ai mutui ipotecari americani prima dello scoppio della crisi dei sub-prime nel 2007, la stessa agenzia che, nel tagliare il rating agli Stati Uniti, ha commesso un errore da 2.000 miliardi di dollari; le società di rating sono state bravissime per aver fatto considerare "naturali ed oggettive" le loro pagelle. È questo il successo più evidente delle società di rating. Ne è conseguito che: 1) In molti statuti di fondi di investimento è presente la clausola che i titoli su cui investire devono avere un rating. Le obbligazioni emesse da un qualsiasi soggetto non possono essere acquistate dai fondi pensione o da altri investitori istituzionali se non hanno un rating. L'emittente, quindi, si accorda con l'agenzia per ottenere la pagella dietro pagamento di un compenso. Di norma il rating ricavato non viene comunicato direttamente al mercato, ma viene sottoposto prima al cliente. Se questo non è "soddisfatto" del voto, l'agenzia può chiedere la consultazione di altra documentazione e pervenire ad un "nuovo" voto. È comunque curioso che documentazione in grado di dar luogo ad una valutazione più precisa (la successiva) non sia richiesta e/o fornita subito. Ma i tre "compari" possono emettere giudizi di rating anche su entità che non li hanno sollecitati, perché - sostengono - richiesti dal mercato. Le agenzie li fanno lo stesso, definendoli come una risposta alle richieste del mercato. Se il voto non fosse gradito, è facile per i compari sostenere che esso deriva dai documenti disponibili e che, se ce ne fossero di più attinenti, potrebbero, a pagamento, considerarli; 2) la stessa mifid (la normativa europea che regola i comportamenti della società che offrono servizi di investimento) ha innalzato, nei fatti, al livello di fonte naturale di diritto la pagella delle società di rating, anche se non definisce le caratteristiche di chi dovrebbe fornirla. Insomma, si è fatta passare una mera valutazione privata come certificazione di affidabilità. In un documento esplicativo redatto, a suo tempo, da una banca italiana per illustrare le nuove normative europee, vengono richiamate le due "principali" società di rating, promuovendole così a certificatori. In esso si legge che, al fine di valutare la rischiosità di uno strumento finanziario, si deve tener presente il rating, ossia il giudizio assegnato da un'agenzia specializzata indipendente, espresso da un codice alfanumerico, riguardante il merito di credito di una società emittente titoli o di una particolare emissione di titoli. Il rating fornisce un'informazione sul grado di rischio degli emittenti, ossia sulla capacità di assolvere puntualmente ai propri impegni di pagamento. L'assegnazione di un rating agevola anche gli emittenti nel processo di pricing e di collocamento dei titoli emessi. Le agenzie di rating assegnano un punteggio (il rating, appunto) sulla base di una graduatoria (o scala di valutazione). Il giudizio può anche differire in funzione dell'agenzia che ha condotto la valutazione. Nel fornire il proprio giudizio le agenzie di rating si basano su un'analisi dettagliata della situazione finanziaria della società da valutare e sull'analisi del settore di appartenenza della stessa. Di norma, quanto maggiore è il rating di una società, tanto minore è il rischio per l'investitore di non vedersi remunerato il proprio credito e quindi tanto minore è il tasso di interesse pagato dall'emittente; le principali società che forniscono rating e sono riconosciute dalla SEC sono 16: 1) A.M.Best (U.S.); 2) BaycorpAdvantage (Australia); 3) CapitalIntelligence(Cyprus); 4) CapitalStandardsRating (Kuwait); 5) Credoline (Ukraine); 6) DagongGlobal(People'sRep.ofChina) - privata ma operante su autorizzazione del governo di Pechino; 7) DominionBondRatingService (Canada); 8) Egan-JonesRatingCompany (U.S.); 9) FitchRatings (Dual-headquarteredU.S./UK); 10) CIBIL (India); 11) JapanCreditRatingAgency, Ltd. (Japan); 12) Moody'sInvestorsService (U.S.); 13) MurosRatings (Russiaalternativeratingag.); 14) RapidRatingsInternational (U.S.); 15) Standard&Poor's(U.S.); 16) WeissRatings (U.S.); non esiste una società di rating della Unione europea. La Fitch è partecipata da FIMALAC (francese) che detiene oltre il 50 per cento della proprietà. Le società di rating forniscono (per gli addetti ai lavori) la probabilità percentuale di default 0,1 per cento minima probabilità, 33 per cento massima probabilità, oltre la quale l'emittente non è più qualificato). Curiosamente, però, divulgano i voti relativi ai livelli di rating traducendo le percentuali di probabilità di default in giudizi alfa numerici non sempre uguali per le quattro società: AAA minima probabilità di default; C, D, o C- per il 33 per cento ed oltre di probabilità. Lo scopo è quello di far assumere un tono meno "scientifico" e trasparente alla pagella: fornire direttamente la percentuale di probabilità di default è molto più impegnativo che togliere un "più" o un "meno" ad una serie di B. Oltretutto, la percentuale avrebbe permesso una immediata comparazione fra le pagelle delle quattro società. Con il sistema adottato, occorre una traduzione che non tutti sono in grado di fare, anche perché occorre avere a disposizione le specifiche relative ai voti; a giudizio dell'interrogante è ormai evidente che le tre sorelle del rating, piene di conflitti di interesse e corresponsabili di una crisi sistemica iniziata il 7 agosto 2007 con lo scoppio della bolla dei mutui sub-prime Usa, fanno parte, con le banche di affari ed ai fondi speculativi, di una cricca economica con gravissime responsabilità che dovrebbe essere chiamata davanti ad un tribunale internazionale a rispondere di crimini economici contro l'umanità e la sovranità degli Stati; in attesa di decisioni europee ed internazionali non più eludibili sulle agenzie di rating, che finalmente sono sotto inchiesta penale non soltanto in Italia, Adusbef e Federconsumatori danno a loro volta le pagelle sulle tre sorelle del rating, la peggiore con CCC - a Standards & Poor's,che non si è accorta nella riduzione della pagella agli Stati Uniti,di un clamoroso errore di 2.000 miliardi di dollari, e che non ha trovato di meglio che sostituire il proprio amministratore delegato Deven Sharma, sommerso dalle critiche e costretto a dimettersi per tale sbaglio, con Douglas Peterson, un banchiere di lungo corso di Citybank; a Moody' Adusbef e Federconsumatori assegnano CCC +, con un gradino superiore ma sempre tra quei soggetti, secondo gli stessi standard da loro stessi dettati, ai quali non si potrebbe affidare un centesimo se non con un rischio altissimo; all'agenzia Fitch, che, pur facendo parte della cricca, non è indagata né è stata colta in fallo da errori clamorosi nella valutazione, Adusbef e Federconsumatori assegnano il voto di + BBB. I rappresentanti dei consumatori affermano che è tempo che l'Europa passi dalle parole ai fatti istituendo una propria agenzia di rating indipendente, che possa affrancare gli investitori da giudizi squilibrati, spesso emessi ad orologeria come vere e proprie turbative di mercato, si chiede di sapere quali iniziative, alla luce dei fatti esposti in premessa, intenda assumere il Governo al fine di tutelare i consumatori dai report delle agenzie di rating che non hanno diritto di operare fino a quando non ottengono l'autorizzazione da parte dell'Esma. (4-05824) LANNUTTI - Al Ministro dell'economia e delle finanze - Premesso che: si apprende da notizie di stampa che dall'inchiesta sulla P4 in Italia emergono elementi che chiariscono il contesto dell'affaire Delta; si legge su un articolo pubblicato sul sito "SanMarinoWorld.sm": «L 'esistenza del 'memoriale Ghiotti' fu resa nota» da "Tribuna Sammarinese" «il 13 maggio 2009. Si tratta di un documento che conferma, anticipando i tempi, la grave condizione in cui si sarebbe trovata la Cassa di Risparmio di San Marino e il suo vertice. Scritto presumibilmente nel febbraio dello stesso anno, il memoriale con estrema lucidità mette in evidenza il 'ricatto' a cui era sottoposto il più importante istituto bancario di San Marino: pagare il prezzo di 75 milioni di euro alla finanziaria Sopaf dei fratelli Magnoni a fronte del possesso del 15,9 % di azioni Delta, (azioni che valevano invece circa 50 milioni), oppure subire un violento attacco giudiziario. Tutti sappiamo come è andata a finire. Sta emergendo però, con sempre maggiore insistenza, un quadro più chiaro del contesto in cui la 'proposta' era stata formulata. Scrive l'ex presidente di Cassa di Risparmio, Gilberto Ghiotti nel suo memoriale: "Il 20 gennaio 2009, in Piazza di Spagna incontro dapprima da solo il segretario Gatti, (...) e poi mi accompagnano dall'altra parte della Piazza nell'ufficio del dott. Vittorio Farina". Su questa figura a San Marino ci si è poco interrogati, oggi emerge che Farina, socio unico della Ilte, la stamperia più importante in Italia, era in stretta relazione d'affari con Luigi Bisignani, la figura di collegamento fra l'imprenditoria (d'assalto) e la politica italiana, oggi al centro di un'importante inchiesta che vede coinvolto» un noto esponente del PdL, e «che viene ricondotta alla attività di una loggia massonica, quella della P4. Proprio nel 2009 la Ilte di Farina, di cui Bisignani pare fosse amministratore occulto, chiuse il bilancio con 8,6 milioni di perdite e con 157 milioni di debiti. Era necessario darsi da fare e Bisignani riesce a far stringere rapporti d'affari alla Ilte con Poste Italiane, con l'Eni, con il Poligrafico di Stato e, in quest'ultimo caso è proprio Bisignani a consigliare al ministro Tremonti la figura da porre come presidente dell'importante istituto di Stato. Interessante anche conoscere come Vittorio Farina avesse solo pochi anni prima chiuso un importante affare immobiliare a favore di Banca Intesa facendole guadagnare ben 80 milioni di euro. Corrado Passera non poteva che essere soddisfatto dell'operazione, anche se gli immobili venduti (350 per l'esattezza) finirono nella proprietà della Pirelli Re che aveva come intermediario, lo stesso Bisignani. Figure quelle incontrate a Roma da Gilberto Ghiotti tutt'altro che secondarie nel panorama dei poteri forti italiani, figure che potevano benissimo interloquire con i più alti vertici dello Stato, fino ad arrivare al super ministro. Ciò che pareva in un primo momento essere solo un modo per attirare l'attenzione, alla luce dei nuovi elementi emersi a seguito dell'inchiesta sulla P4 e su Luigi Bisignani, l'affermazione dell'ex Segretario di Stato alle Finanze (Gatti) che dichiarò a Ghiotti di aver "ricevuto una telefonata sul suo cellulare da parte del Ministro dell'Economia del Governo italiano" oggi appare più veritiera. In quella stessa conversazione Gatti dice anche che stava aspettando una telefonata da persona di conoscenza del ministro e che avrebbe dovuto ascoltarlo attentamente. "Il Segretario Gatti - continua Ghiotti nel suo memoriale - mi disse che dopo poco ricevette una chiamata da persona di cui non mi dirà mai le generalità ma che è uno dei grandi manager italiani". Che fosse lo stesso Bisignani? Questo non è possibile saperlo, ma in tale nuovo contesto in cui si collocano i fatti del gennaio 2009 che vedono un frenetico avvicendarsi a Roma di esponenti della Cassa di Risparmio e del Segretario di Stato alle Finanze, per tentare di chiudere la partita Sopaf, il collegamento a personaggi che oggi sono sotto inchiesta, rende ancora più inquietante la comprensione dei reali retroscena che hanno caratterizzato 'l'affaire Delta'. "Lo stesso Tremonti - dice Gatti durante l'incontro segreto a Palazzo Begni registrato da Mario Fantini - nel congedarmi mi ha detto di parlare con questi e questi mi hanno fissato, loro direttamente, l'incontro per martedì pomeriggio...". Non ci sarebbe da stupirsi se agli incontri romani per parlare della vendita delle azioni di Delta, oltre a Vittorio Farina, fosse stato presente anche Luigi Bisignani, così come si sostiene in ambienti vicini agli ex vertici di Carisp. Un filo diretto lega i rapporti politici fra i due Stati, l'impossibilità di chiudere l'accordo, con le vicende finanziarie sammarinesi, in particolare del gruppo Delta che confluiscono paurosamente nel vortice dell'inchiesta P4 che sta mettendo in luce il legame fra il mondo degli affaristi e la politica italiana»; considerato che: il tempo poi ha dato diverse tristi risposte: tra le altre, ad esempio, quella che in pieno commissariamento viene trovato stranamente un accordo tra i nuovi vertici della Cassa di Risparmio di San Marino, caldeggiati dal Governo italiano e vicini a Banca Intesa, e Sopaf per liquidare le quote di quest'ultima (55 milioni di euro più 15 milioni di euro per non meglio precisate consulenze, che, sommate, danno i famosi 70 milioni di euro richiesti a suo tempo con i ricatti e le minacce di cui sopra; tutta questa manovra ha comportato la messa a repentaglio della sicurezza economica di 900 famiglie sconvolte dai licenziamenti, i soliti noti soddisfatti economicamente e sempre al loro posto, sia per quanto riguarda i politici sammarinesi mediatori nella trattativa, oltre a quelli italiani, sia con riferimento ai commissari di Banca d'Italia che, a parere dell'interrogante, continuano da due anni a profittare e a far profittare gli studi a loro collegati di tutto ciò che resta della carcassa di Delta; l'interrogante ne deduce che la battaglia ai paradisi fiscali e a San Marino si era mediaticamente ben inserita nell'affare Delta, ma rappresentava solo un tentativo di depistaggio non trovando alcuna attinenza con la realtà dei suddetti fatti; si legge ancora su "La Tribuna Sanmarinese" del 10 ottobre 2010 che ricostruisce a grandi linee i fatti del gruppo Delta: «Da entità viva "entra in coma" proprio con il commissariamento di Banca d'Italia, nel maggio 2009 con il sacrificio di un migliaio di dipendenti pur di colpire un istituto creditizio sammarinese e con esso un'intera Repubblica. Tutto il personale delle due reti commerciali (PlusValore e Carifin) è stato licenziato in tronco il 17.08.2010. Tutte le filiali sono state chiuse nell'indifferenza generale, con danni immani, ovviamente, anche al cliente finale. Al momento dell'insediamento da parte dei commissari di Banca d'Italia, queste due reti erano considerate il fiore all'occhiello del gruppo. È stato (...) distrutto un gruppo italiano che fino al giorno prima del commissariamento non aveva in previsione contrazioni di personale o chiusure di filiali (...). La realtà dei fatti evidenzia come il commissariamento ha distrutto il gruppo. La gestione commissariale non ha adempiuto al suo compito, che era quello di creare una nuova governance, slegata dalla Cassa di risparmio di San Marino. Al contrario, lentamente, giorno dopo giorno, ha creato i presupposti per la liquidazione»; l'interrogante ha presentato numerosi atti di sindacato ispettivo (4-04798, 3-01708, 4-02473, 4-03124, 3-01604, 4-01884, 2-00083), che ad oggi non hanno ottenuto risposta, per fare luce sulla vicenda Delta, contestando la gestione dell'intera pratica che ha riguardato la holding bolognese e sostenendo l'esistenza di taluni esponenti della Banca d'Italia che, a proprio parere, avrebbe agito nell'interesse di grandi gruppi bancari italiani e non in quello dei consumatori; considerato peraltro che alla luce dei fatti esposti in premessa, l'interrogante ritiene che l'unico obiettivo sia stato quello della mera distruzione di Delta e dell'eliminazione del vecchio management, che ostacolò gli interessi della cricca e che non accettò di andare a patti con logiche massoniche e piduiste, considerato che, dopo che la Repubblica di San Marino è scesa a patti con gli esponenti italiani sulla questione Delta, si è trovato l'accordo sul rientro dei crediti anche con la Cassa di Risparmio di San Marino, che ha già recuperato 800 milioni di euro e che rientrerà di altri 1,1 miliardi di euro nei prossimi 4 anni, si chiede di sapere quali iniziative di competenza intenda assumere il Governo, alla luce delle vicende finanziarie sammarinesi, che confluiscono paurosamente nel vortice dell'inchiesta P4 che sta mettendo in luce il legame fra il mondo degli affaristi e la politica italiana, al fine di tutelare realtà economiche che, come nel caso del Gruppo Delta, fiore all'occhiello dell'economia emiliano-romagnola, vengono distrutte con attacchi di sciacallaggio per arricchire i soliti noti. (4-05825) LANNUTTI - Al Ministro dell'economia e delle finanze - Premesso che da un articolo del quotidiano "La Repubblica" a firma Maurizio Ricci si apprende che, stando ai dati del Ministero dell'economia e delle finanze, «solo l'1,2 per cento dei contribuenti dichiarava, nel 2009, un reddito superiore a 90 mila euro. In sostanza, un pò più di 500 mila persone. Mentre constatate, nello specchietto retrovisore in autostrada, che quella è la seconda Mercedes che vi sorpassa in pochi secondi, è probabile che vi vengano dei dubbi. In effetti, nel 2010, in Italia si sono vendute, grosso modo, fra fuoristrada e deluxe, un pò meno di 350 mila vetture di grossa cilindrata, quei bestioni che, solo all'acquisto, costano lo stipendio netto di un anno del più povero dei super-ricchi. Nel 2007, erano oltre 450 mila. Possibile che i 500 mila megacontribuenti si possano permettere quasi una Mercedes nuova all'anno? In effetti, secondo l'indagine campione della Banca d'Italia, i capifamiglia italiani che guadagnavano più di 90 mila euro l'anno (nel 2008) non sono l'1,2 per cento, ma il 2,5 per cento del totale, per un reddito medio di 130 mila euro. Insomma, un milione anziché 500 mila: il doppio. Ovvero, la metà dei super-ricchi italiani risulta renitente alla leva Tremonti. Per capire chi sono i renitenti, cominciamo a vedere chi è che risulta straricco, anche per il fisco. Secondo i dati elaborati da Manageritalia, per conto della Cida, il sindacato dei dirigenti aziendali, l'86 per cento dei contribuenti che denunciano più di 90 mila euro l'anno sono lavoratori dipendenti e pensionati. Nello specifico, circa 300 mila dirigenti e quasi 140 mila pensionati. Sono i forzati del fisco, quelli chiamati a pagare sempre, senza se e senza ma, sulla propria busta paga. Accanto a loro, in questo esercito di spremuti dall'erario che si prepara ad una nuova torchiatura, un manipolo di avvocati, architetti, farmacisti, gioiellieri, notai, negozianti e pizzaroli: in tutto, imprenditori e lavoratori autonomi sono 60-70 mila, gli abitanti di una media città di provincia. Questa ripartizione non è del tutto irrealistica. L'Istat censisce 17 milioni di lavoratori dipendenti e quasi 6 milioni di indipendenti: poco più di un terzo. Ma, a inquinare il quadro, nelle tabelle dell'istituto di statistica sugli indipendenti ci sono i plotoni di co. co. co e di bancarellari ambulanti stranieri. Per stare ai dati della Banca d'Italia, i capifamiglia imprenditori o autonomi sono il 12,5 per cento del totale. A occhio, a prima vista, con i dati del fisco ci siamo. Ma questo presuppone che i lavoratori autonomi si spalmino nella piramide dei redditi, più o meno nella stessa proporzione, dalla base al vertice. Questo, in effetti, risulta da quanto hanno dichiarato, ad esempio, al fisco nel 2009. A parte notai (oltre 400 mila euro) e farmacisti (che trattano con la sanità pubblica: 126 mila euro), i medici dichiarano, in media, meno di 60 mila euro (lorde). I commercialisti meno di 50 mila. I dentisti meno di 45 mila, appena più degli avvocati. Gli assicuratori circa 30 mila (sempre lorde). Architetti e geometri fra 25 e 28 mila, poco più di mille euro nette al mese. I concessionari di automobili 18.400 euro l'anno, più o meno quanto un maestro elementare. Sempre più, comunque, dei gioiellieri, costretti a sbarcare il lunario con un reddito medio al di sotto dei 16 mila euro l'anno, la busta paga di un precario. A guardare lo studio, i vestiti, l'auto del vostro dentista, vi vengono dei dubbi. Anche alla Banca d'Italia. Secondo i calcoli di via Nazionale, infatti, imprenditori, liberi professionisti, commercianti, non si distribuiscono affatto, nella stessa proporzione, lungo la piramide dei redditi. Al contrario, il 56 per cento degli imprenditori e dei liberi professionisti, un terzo dei commercianti e degli artigiani rientra nel 20 per cento più ricco del paese. Del resto, sono stati loro ad essere premiati dal lungo ristagno che, dal 1993, la data dell'ultima grande stangata di governo, imprigiona l'economia italiana. Nei 15 anni dal 1993 al 2008, prima, cioè, dell'ultima crisi, il reddito delle famiglie italiane, al netto dell'inflazione, è salito del 12 per cento, meno dell'1 per cento l'anno. Ma non è andata nello stesso modo per tutti, forse a dimostrare che le stangate non lasciano gli stessi segni a chiunque. In questi 15 anni, il reddito medio dei lavoratori dipendenti è salito, senza contare l'inflazione, del 4 per cento. Di fatto, le buste paga sono rimaste, più o meno, più o meno, quelle dei tempi di Tangentopoli e del governo Amato. Al contrario, i redditi di imprenditori, liberi professionisti, commercianti e artigiani sono arrivati a gonfiarsi, anche nonostante la brusca caduta degli ultimi anni, del 25 per cento. In soldoni, tolta l'inflazione, la busta paga dell'impiegato, fra il 1993 e il 2008, è passata da 1.000 a 1.040 euro. Il compenso dell'idraulico da 1.000 euro a 1.250. Nulla di tutto ciò, a quanto pare, è noto al fisco. Assai più candidi con gli intervistatori della Banca d'Italia di quanto siano con gli agenti delle Entrate, gli stessi interessati, tratteggiando i propri redditi, disegnano una piramide sociale in cui chi non dipende dalla busta paga tende ad addensarsi nelle fasce alte. Solo il 10 per cento dei lavoratori dipendenti dichiara di guadagnare più di 60 mila euro l'anno. Mentre lo dice (alla Banca d'Italia) il 25 per cento dei lavoratori autonomi e indipendenti. Ad un risultato analogo si arriva se, invece del reddito, si usa un parametro assai più efficace per disegnare la piramide sociale italiana, al di là della nebbia delle denunce dei redditi: la ricchezza, ovvero il reddito accumulato negli anni. L'Italia vive, infatti, la singolare contraddizione di essere, sulla base dei dati ufficiali, un paese ricco, con redditi bassi. La ricchezza netta delle famiglie italiane è pari al 5,7 per cento della ricchezza mondiale, mentre siamo solo il 3 per cento del Pil e l'1 per cento della popolazione globale. E' una ricchezza media, naturalmente, ma il dato proietta, in tempi di discussione sul declino nazionale, un paradosso. Nessun paese sviluppato al mondo è così ricco, rispetto al reddito disponibile: siamo otto volte più ricchi di quanto riusciamo a produrre in un anno. Negli Stati Uniti il rapporto è 5 a 1. Vicino ai nostri livelli arriva solo la Gran Bretagna. Una parte cospicua di questi soldi è gelosamente custodita all'estero: 150 miliardi di euro, secondo gli ultimi calcoli di Via Nazionale, in barba allo scudo fiscale Tremonti. Il resto, in case e in titoli, è distribuito in Italia secondo uno schema facilmente ricostruibile. La ricchezza netta delle famiglie italiane è pari, in media, a 153 mila euro. La ricchezza media di un lavoratore dipendente è 122 mila euro, quella di un lavoratore autonomo, imprenditore o libero professionista, è 290 mila»; considerato che come si legge in un articolo pubblicato su "Il Corriere della sera" il 5 settembre 2011 dal titolo "I ricchi e gli evasori": «L'Unione Europea ha fornito al Cavaliere un assist formidabile, consigliandolo di fare quelle riforme di struttura che aveva messo nel suo programma del '94. Il governo non solo non lo ha raccolto ma ha scatenato, con la complicità dei media, una caccia all'"untore", il "ricco", identificato tout court con l'"evasore". Tremonti, che ripete che "anche i ricchi devono pagare le tasse", non si limita a proclamare un principio ovvio per un ministro delle Finanze, bensì fa un'affermazione che puzza di demagogia lontano un miglio, che non fa onore né alla sua intelligenza né alla sua cultura e suona più una giustificazione dell'incapacità del governo di fargliele pagare che un programma di rigore fiscale, che andrebbe fatto con serietà. I dati di ieri fanno riflettere. Nel giro di qualche settimana, la "comunicazione" governativa ha attribuito la crisi - che è della finanza pubblica nazionale, oberata da uno Stato costoso, sprecone e oppressivo - alla "speculazione internazionale", che ne è invece il sintomo», si chiede di sapere: quali iniziative intenda assumere il Governo al fine di attivarsi per una vera lotta all'evasione fiscale facendo pagare coloro che fino ad ora non lo hanno mai fatto, considerato che la vera piramide sociale del Paese non è quella delle statistiche ufficiali e che l'evasione distorce l'attendibilità dei dati sui redditi, cominciando a tirare fuori i nomi degli "scudati" del 2009, nonché facendo un censimento di yacht, auto e altri beni di lusso con controlli incrociati, perché non è più sostenibile la farsa per cui spesso un imprenditore guadagna meno dei suoi dipendenti; quali misure urgenti intenda assumere per evitare che vi siano evasori di serie A riveriti ed impuniti, ed evasori di serie B, allargando in tal modo il solco dell'iniquità e dell'ingiustizia che allontana i cittadini onesti dalle istituzioni democratiche; quali iniziative urgenti intenda intraprendere per il rilancio dell'economia, dello sviluppo e della riforma fiscale. (4-05826)

08/09/2011

Documento n.9039

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