POLITICA: IL DIRETTORE DI RIFERIMENTO DEL PARTITO DELL'AMORE, QUERELATO DA FINI PER DIFFAMAZIONE

in Articoli e studi
Su Feltri pende una querela per diffamazione chiesta da Fini e depositata dall’avvocato e deputata Giulia Bongiorno - LITTORIO: "fini HA UN DIFETTUCCIO: NON SOPPORTA LE CRITICHE. PER QUESTO VUOLE CHE IO VENGA RIMOSSO DAL 'giornale'" - "Negli anni '90 mi chiese di candidarmi nella lista An per il consiglio comunale della città. Gentilmente rifiutai. A me piace fare il giornalista, non il politico"... - www.dagospia.it 1 - E DALLA BONGIORNO ARRIVA LA QUERELA... Da "Il Fatto Quotidiano" - Per scambiarsi i doni natalizi Gianfranco Fini aveva spedito a Vittorio Feltri una confezione di Valium, un "calmante per evitare allucinazioni". Il direttore del Giornale aveva ricambiato con una bottiglia di lambrusco e un biglietto: "Ci vada piano con il rosso, ultimamente ha esagerato". Piccante folklore. Ma su Feltri pende una querela chiesta da Fini e depositata il 15 settembre scorso dall'avvocato e deputata Giulia Bongiorno. Fini vuole risarcimenti per il danno d'immagine subìto da un editoriale "infamante" di Feltri intitolato "Il presidente Fini e la strategia del suicidio lento". "Delegare i magistrati a far giustizia politica è un rischio. Specialmente - scriveva il direttore - se le inchieste giudiziarie si basano su teoremi. Perché oggi tocca al premier, domani potrebbe toccare al presidente della Camera. È sufficiente, per dire, ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza nazionale per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme". La settimana prossima sono attese le prime novità. 2 - ECCO PERCHE FINI NON DICE LA VERITA Vittorio Feltri per "il Giornale" Viste le polemiche stucchevoli suscitate dai nostri articoli critici sul comportamento della destra somigliante alla sinistra più sgangherata, cerchiamo di rasserenare i lettori anche se, a giudicare dalle loro lettere, sono serenissimi. Lo facciamo per prudenza e per evitare fraintendimenti. Non si sa mai. Nella maggioranza c'è qualcosa che non va, e questo lo hanno notato tutti. Quando si tratta di prendere una decisione, l'ala finiana (numericamente esigua e politicamente marginale) anziché agevolare le operazioni, le rallenta appellandosi a principi costituzionali, regolamenti parlamentari e, spesso, a pretesti. Perché? Questo è il punto. Non si capisce quale sia lo scopo ultimo di chi rema controcorrente. Abbiamo azzardato delle ipotesi, ma risposte non sono mai giunte. E i sospetti, anziché dissiparsi, sono aumentati. Gianfranco Fini si arrabbia, querela, sbotta, incarica i suoi colonnelli di indagare. Intanto continua a puntare alla mia decapitazione. Campa cavallo. Non lo dico per presunzione. Piuttosto so di rischiare poco: al massimo, mi può capitare di dover vuotare i cassetti della scrivania e andare a casa. Che, grazie al cielo, posseggo e quindi non tremo né di paura né per il freddo. Lunedì scorso siamo usciti con questo titolo: «Fini come Di Pietro». In effetti, nella gestione degli immobili di partito, i due si sono comportati più o meno allo stesso modo. Non è un'illazione, è la realtà. Ma Fini si è offeso per essere stato paragonato al «padrone» dell'Italia dei valori, quasi che questi fosse un alieno e non un parlamentare della Camera di cui Gianfranco è presidente. Nessuno lo ha accusato di aver violato la legge. Il nostro giornalista -De Francesco - bravo e documentato - si è limitato a raccontare i fatti come stanno. Il ministro della Difesa La Russa ci ha poi inviato una lettera di precisazioni, e noi l'abbiamo pubblicata con la risposta del medesimo De Francesco che ha ribadito quanto aveva scritto, spiegando la rava e, se permettete, anche la fava. Dov'è il problema? Sta in un difettuccio di Fini. Il quale non sopporta alcun rilievo e pretende di essere adorato da noi quanto è adorato dalla sinistra che, se adora, non lo fa gratis. Gianfranco non è uno sprovveduto. Lo conosco da circa un quarto di secolo. Negli anni Novanta mi diede un appuntamento al Circolo della stampa di Milano e mi chiese di candidarmi nella lista An per il consiglio comunale della città. Gentilmente rifiutai. A me piace fare il giornalista, non il politico. Poco dopo, La Russa venne alla redazione del Borghese, pranzammo insieme, e mi propose una candidatura al Parlamento europeo. Ancora gentilmente rifiutai (non senza imbarazzo). Nel 2008, in una nota località di villeggiatura, Fini mi telefonò e ci incontrammo davanti a una bottiglia di champagne, anzi due. Con noi c'erano la compagna sua e il fratello medico. Parlammo a lungo, anche di Berlusconi, e ci trovammo d'accordo su tutto. Fu una gradevole conversazione.Trascorre un annetto, e Gianfranco muta radicalmente politica e atteggiamenti. Inutile ricordare in che cosa consista ora la differenza fra la sua linea e quella del Pdl. Ne abbiamo già scritto in molte circostanze e ogni bis sarebbe una perdita di tempo e di spazio. Perché ho rammentato episodi apparentemente insignificanti? Per dire che fra Gianfranco e me esiste una vecchia consuetudine e che, negli articoli del Giornale su di lui, non c'è nulla di personale, ma solo il desiderio di comprendere dove l'uomo voglia arrivare col suo nuovo stile. Il fatto che egli non abbia mai spiegato apertamente le ragioni del suo dissenso da Berlusconi autorizza a pensare che tali ragioni siano dei torti. L'unico concetto che Fini ha espresso ripetutamente è il seguente: se Feltri scrive certi pezzi è perché glieli ordina Berlusconi; se non glieli ordinasse lui e fossero scritti dal direttore spontaneamente, questi dovrebbe essere sollevato dall'incarico. Il che rivela una mentalità democraticamente immatura: per Fini è inconcepibile che un giornalista agisca di testa sua senza consultare non dico l'editore ma almeno il fratello. Sbaglia. Perché io, nel mio piccolo, sono capace di commettere in proprio perfino degli errori gravi, e non accetto suggerimenti ma soltanto licenziamenti. Ho un contratto e carta canta. Per cui Fini si rilassi: e casomai se la prenda con me, non con terzi o quarti. Sappia che non cesserò comunque di rivolgergli la domanda che tutti si pongono: che senso ha la sua presenza nel centrodestra se lui è vicino alla sinistra? Ieri-per dirne un'altra - quel simpaticone di Adolfo Urso, finiano, è andato alla Rai e, dopo aver dichiarato che «tutto quello che dice Feltri è falso», ha cantato in diretta Bandiera rossa. Così, tanto per gradire e smentire che Gianfranco e i suoi rockers siano di sinistra. Il bello è che il "Secolo d'Italia", riferendosi a me, fa questo titolo in prima pagina: «Fermiamo gli sfascisti ». Sotto, un articolo della direttrice Flavia Perina in cui ella afferma che fu Feltri, nel1996, a far perdere le elezioni al centrodestra e non Prodi (e Bossi). Con ciò dandomi una importanza molto superiore a quella di tre o quattro partiti alleati. Fa ridere solo a pensarci. Una cinquantina di righe dopo, la stessa direttrice ha un'altra sortita da cabaret: «L'impuntatura di Feltri finisce solo con il rendere più simpatico il presidente della Camera». Fosse così non si comprenderebbe perché Fini invece di ringraziarmi aspiri a farmi fuori. Basta questo, suppongo, a smontare il castello di sciocchezze costruito sul Giornale cui si vorrebbe negare il diritto a fare il suo mestiere: divulgare le opinioni di chi ci lavora a prescindere dalle parentele dell'editore. Il quale ha un'arma micidiale da usarsi nel caso in cui non sia soddisfatto del prodotto: sostituire il direttore. Ma lo sostituisce lui, non il presidente della Camera magari su istigazione della confraternita antiberlusconiana.

08/01/2010

Documento n.8394

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