LO STATUS DI PARLAMENTARE NEL REGIME STATUTARIO E NELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA. Prerogative. Garanzie. Privilegi. Di Federico Novelli

in Articoli e studi
LO STATUS DI PARLAMENTARE NEL REGIME STATUTARIO E NELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA. Prerogative. Garanzie. Privilegi. Prima Parte Di Federico Novelli (15 ottobre 2007) -------------------------------------------------------------------------------- INDICE DELLA PRIMA PARTE 1. Introduzione. 2. Lo status dei parlamentari nel regime dello Statuto Albertino. 3. Lo status dei parlamentari nella Costituzione Repubblicana. 3.1 L’ immunità parlamentare. 3.2 La problematica dell’ insindacabilità alla luce di alcune sentenze della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei diritti dell’ uomo di Strasburgo. 3.3 Le altre garanzie previste dall’ art. 68 della Costituzione. 3.4 L’ applicazione dell’ art. 68 della Costituzione: la legge 140 del 20-6-2003. 3.5 L’ indennità e il trattamento economico dei parlamentari FONTI BIBLIOGRAFICHE. 13 SITI INTERNET CONSULTATI 13 -------------------------------------------------------------------------------- 1. Introduzione La storia delle istituzioni rappresentative in Europa può essere fatta risalire al 12° secolo, nel momento in cui i sovrani iniziarono la consuetudine di riunire periodicamente grandi consessi allo scopo di rendere partecipi le personalità più influenti dei loro regni (dignitari del sovrano, nobili e prelati) delle decisioni più importanti. Nei secoli 14° e 15°, con lo sviluppo del ceto borghese urbano, anche i membri di tale classe sociale entrarono a fare parte delle assemblee rappresentative. Le assemblee parlamentari iniziarono a costituire, così, a partire dall’ esperienza inglese, un limite significativo al potere assoluto dei sovrani; esse assunsero inoltre, il ruolo di rappresentare la comunità stanziata su un determinato territorio portandone avanti interessi e soddisfacendone le esigenze. Poiché proprio in Inghilterra si è sviluppata per prima l’ istituzione parlamentare, occorre iniziare il discorso sull’ immunità parlamentare tenendo presente il contributo fondamentale di questa esperienza politico-costituzionale. Nell’ ordinamento inglese il Parlamento ha conosciuto, a partire dal Medio Evo, un progressivo incremento del proprio ruolo e delle proprie prerogative; in questo contesto si è fatta più urgente anche la necessità di garantire l’ indipendenza di coloro che sedevano nelle assemblee. Infatti il ruolo fondamentale che svolgevano, all’ interno della comunità nazionale, coloro che erano eletti nel Parlamento implicava la necessità che essi fossero autonomi dalla Corona. Al fine di garantire l’ autonomia dei parlamentari sono state perciò istituite speciali prerogative, le immunità; esse assicuravano ai membri delle istituzioni rappresentative un particolare status. Tale status valeva, appunto, a garantire il parlamentare dagli eventuali attacchi che la Corona poteva condurre nei suoi confronti attraverso l’ autorità giudiziaria ad essa sottomessa. La situazione non è cambiata in modo rilevante quando la magistratura ha cessato di essere dipendente dal sovrano ed è stata costituita in ordine autonomo ed indipendente; infatti va sempre garantita l’ indipendenza dei membri del Parlamento anche nei confronti del potere giudiziario, ciò anche per assicurare il rispetto del fondamentale principio della separazione dei poteri. Con l’ avvento della democrazia nell’ età contemporanea le assemblee rappresentative hanno assunto un ruolo chiave nella struttura istituzionale degli stati, proprio perché esse costituiscono il fondamento di una società democratica. Coloro che sono eletti nelle assemblee parlamentari sono i rappresentanti dell’ intera comunità nazionale e portano avanti i suoi interessi; il loro compito è, dunque, molto alto: attraverso di loro il popolo esercita la sua sovranità. Si comprende, così, perché essi abbiano uno status particolare, accordato loro dalla Costituzione. Tale status si concretizza in una condizione giuridica che prevede particolari garanzie e vari tipi di indennità. 2. Lo status dei parlamentari nel regime dello Statuto Albertino. La Costituzione vigente in Italia dal 1861 (e nello Stato Sabaudo dal 1848), lo Statuto Albertino, prevedeva, all’ art. 50, che “le funzioni di Senatore e di Deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione od indennità”. L’ assenza dell’ indennità fa pensare al fatto che lo status di parlamentare era vissuto, in epoca statutaria, unicamente come un vero e proprio servizio alla collettività nazionale. Risulta evidente la differenza con l’ attuale regime repubblicano: la nostra Costituzione, infatti, prevede che il parlamentare consegua un’ indennità stabilita dalla legge (art. 69). Ciò implica che oggi lo status di parlamentare è forse vissuto più come una normale professione che come un autentico servizio. Se è vero ciò, bisogna però considerare anche l’ altra faccia della medaglia: infatti la disposizione statutaria contenuta nell’ art. 50 è figlia del suo tempo, un tempo assai diverso dal nostro; un tempo in cui poteva svolgere l’attività politica e parlamentare solo chi era abbiente ed aveva mezzi economici adeguati. L’ introduzione dell’ indennità da parte della Costituzione repubblicana permette anche a chi non è abbiente di porsi al servizio della Nazione. Tuttavia, anche se lo Statuto Albertino non prevedeva indennità, nondimeno esso sanciva delle garanzie per la tutela dei membri del Parlamento da eventuali abusi. L’ art. 37 dello Statuto stabiliva che nessun Senatore potesse essere sottoposto ad arresto se non per ordine del Senato, salvo il caso di flagrante delitto. Inoltre era stabilito che solo il Senato potesse giudicare dei reati imputati ai suoi membri. Disposizioni analoghe erano contenute negli artt. 45 e 46: l’ art. 45 sanciva che nessun Deputato potesse essere arrestato durante la sessione, se non per flagrante delitto, o tradotto in giudizio per materia criminale senza il previo consenso della Camera. L’ art. 46, più specificamente, stabiliva che non era possibile eseguire mandato di cattura per debiti nei confronti di un Deputato durante la sessione e nelle 3 settimane precedenti e susseguenti ad essa. L’ art. 51 prescriveva che i parlamentari non erano sindacabili per le opinioni espresse e per i voti dati nelle Camere. Infine, l’ art. 60 sanciva che le Camere erano le sole competenti a giudicare la validità dei titoli di ammissione dei loro membri. 3. Lo status dei parlamentari nella Costituzione Repubblicana 3.1 L’ immunità parlamentare Il particolare status dei parlamentari è sancito in modo preciso dalla Costituzione Repubblicana del 1948. Fondamentale a questo proposito è la disposizione dell’ art. 68, il quale recita: “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’ esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’ atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’ arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza”. Si precisa subito che tale formulazione dell’ art. 68 è scaturita dalla riforma costituzionale introdotta con la legge costituzionale n. 3 del 29 ottobre 1993, la quale ha significativamente eliminato l’ autorizzazione a procedere. Prima della riforma, infatti, l’ autorizzazione della Camera di appartenenza era richiesta non solo per sottoporre il parlamentare all’ arresto, ma addirittura per sottoporlo a processo penale. La ratio dell’ autorizzazione a procedere era quella di proteggere il parlamentare da eventuali attacchi persecutori da parte dell’ autorità giudiziaria. Da ciò discende che la Camera di appartenenza non doveva, in sede di valutazione sull’ opportunità di concedere l’ autorizzazione, verificare la fondatezza dell’ imputazione, bensì soltanto accertare che non ci fossero motivazioni politiche alla base dell’ imputazione stessa[1]. Purtroppo la prassi parlamentare ha preso tutt’ altra direzione: infatti si è verificata spesso una negazione sistematica delle autorizzazioni, che ha trasformato un istituto di garanzia in un vero e proprio strumento per salvaguardare gli interessi personali dei membri del Parlamento, configurando così un abuso delle prerogative parlamentari. Il fatto che spinse il potere legislativo a provvedere all’ eliminazione dell’ autorizzazione a procedere dalla Costituzione nel 1993, fu la negazione della stessa nei confronti dell’ on. Bettino Craxi, il 29 aprile 1993. Rispetto alla precedente formulazione, il nuovo art. 68 introdotto con la riforma costituzionale del 1993 non contiene più l’ autorizzazione a procedere, né quella necessaria per arrestare o mantenere in detenzione un parlamentare anche nel caso di sentenza irrevocabile di condanna, ma sancisce alcune garanzie nuove: infatti è stabilito che i membri del Parlamento non possono, senza l’ autorizzazione della Camera alla quale appartengono, essere sottoposti ad intercettazioni di conversazioni o comunicazioni ed al sequestro della corrispondenza. Inoltre è diversa la formulazione del 1° comma: mentre prima della riforma esso recitava “i membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni e i voti dati nell’ esercizio delle loro funzioni”, oggi esso stabilisce che “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’ esercizio delle loro funzioni”. Con questa nuova enunciazione si è tornati alla originaria proposta sottoposta all’ esame dell’ Assemblea Costituente dalla Commissione per la Costituzione (c.d. Commissione dei 75). La diversità di espressioni nelle diverse versioni dell’ art. 68, comma 1, tuttavia, non crea grandi problemi. Più spinosa e problematica appare, invece, l’ interpretazione della locuzione “funzioni parlamentari”. Infatti è proprio dalle diverse accezioni che l’ espressione in esame può assumere che discendono conseguenze pratiche diverse. E’ chiaro che lo status di cui godono i parlamentari è inscindibilmente connesso con le funzioni che essi svolgono; se così non fosse, la conseguenza pratica sarebbe che l’ insieme delle prerogative funzionali si trasformerebbe in privilegi personali. E’ ovvio, perciò, che il Costituente ha inteso specificare un ben preciso nesso funzionale, unica fonte di legittimazione delle prerogative parlamentari. Il problema che si pone è stabilire qual’ è il confine tra funzioni parlamentari e normale agire personale, fosse anche un agire politico. Il tema è stato più volte oggetto di sentenze della Corte Costituzionale e sarà trattato più ampiamente nel paragrafo successivo. Un accenno merita l’ immunità della sede. Gli edifici del Parlamento (Palazzo Montecitorio e Palazzo Madama) sono coperti da immunità. Ciò significa che nessuna persona che sia estranea alle Camere può introdursi negli edifici. Speciali norme dei regolamenti parlamentari disciplinano la presenza del pubblico in apposite tribune durante le sedute. L’ immunità della sede rappresenta un’ altra garanzia per il Parlamento in quanto contribuisce, al pari delle altre, tutelarne l’ autonomia da qualsiasi altro potere. 3.2 La problematica dell’insindacabilità alla luce di alcune sentenze della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei diritti dell’ uomo di Strasburgo Sulla fondamentale tematica dell’ insindacabilità sono intervenute, da una parte le Camere, dall’ altra la Corte Costituzionale con diverse interpretazioni. A questo proposito occorre fare riferimento ad alcune sentenze con cui la Corte costituzionale si è pronunciata sull’argomento. Iniziamo dalla sentenza n. 289 del 1998. Essa ha risolto un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (tra la Camera dei Deputati e l’ autorità giudiziaria, nella fattispecie il Tribunale di Bergamo) sorto a seguito di una delibera della Camera dei Deputati con cui si stabiliva che i fatti per i quali era sottoposto a processo civile l’ on. Roberto Calderoli riguardavano opinioni espresse nell’ esercizio delle funzioni parlamentari ai sensi dell’ art. 68, comma 1, della Costituzione. Nella fattispecie l’ on. Calderoli si era espresso in termini ingiuriosi nel confronti del Presidente della Repubblica nel corso di un comizio (dunque fuori dal Parlamento). A seguito di ciò il sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo e procuratore della Repubblica facente funzioni, Tommaso Buonanno, aveva inviato all’ on. Calderoli un’ informazione di garanzia in cui si ipotizzava il reato previsto dall’ art. 278 del Codice Penale[2]. L’ on. Calderoli si espresse allora in termini diffamatori nei confronti del dott. Buonanno. A seguito di questi fatti la Camera ha, con la suddetta delibera emanata il 31 gennaio 1996, eccepito l’ applicazione dell’ art. 68, comma 1, della Costituzione, cui ha fatto seguito il conflitto di attribuzione sollevato dal Tribunale di Bergamo. In sintesi il Tribunale ha affermato che l’ arbitraria estensione delle prerogative di cui all’ art. 68, comma 1, della Costituzione a comportamenti che si situano al di fuori dell’ esercizio delle funzioni parlamentari, mina le attribuzioni costituzionali dell’ autorità giudiziaria ed il diritto di ognuno di ricorrere in giudizio per una lesione del proprio diritto all’ onore e alla reputazione; inoltre esso ha ribadito che non può essere fatta rientrare nelle funzioni parlamentari l’ attività extra moenia che il parlamentare svolga come uomo di partito o privato cittadino. La Consulta ha stabilito che nel concetto di funzione non può essere fatta rientrare l’ intera attività politica del parlamentare - pena il rischio di trasformare la prerogativa in un ingiustificabile privilegio personale - , bensì solo l’ attività strettamente connessa con l’ esercizio delle attribuzioni delle assemblee legislative. Pertanto la Corte Costituzionale ha ritenuto giusto annullare la deliberazione del 31 gennaio 1996 con cui la Camera dei Deputati ha eccepito l’ applicazione dell’ art. 68, comma 1, della Costituzione, nella parte in cui si riferisce al procedimento civile contro l’ on. Calderoli. Il conflitto di attribuzione è stato così risolto a favore dell’ autorità giudiziaria. Sempre la Consulta ha sancito (sentt. 10 e 11 del 2000) che il nesso funzionale sussiste solamente quando le dichiarazioni rese fuori del Parlamento siano riproduttive di opinioni espresse in Parlamento. Come la precedente, anche la sentenza n. 10 del 2000 è stata emanata a seguito di un conflitto di attribuzione, sollevato questa volta dal tribunale di Roma nei confronti della Camera dei Deputati nel corso di un procedimento penale nei confronti dell’ on. Vittorio Sgarbi. L’ on. Sgarbi era imputato di diffamazione a mezzo stampa a danno del magistrato Giancarlo Caselli, allora procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, per averne offeso la reputazione, anche con l’ attribuzione di fatto determinato. Il Deputato aveva fatto dichiarazioni alle agenzie giornalistiche ANSA e AGI, rese pubbliche il 27 aprile 1994 e riguardanti il processo penale nei confronti del sen. Giulio Andreotti, indagato dalla procura di Palermo, nelle quali affermava, tra l’ altro, di aver dato mandato ai suoi legali di denunciare il magistrato e che “il processo Andreotti è un processo politico”. Ad avviso del tribunale, le opinioni espresse dall’ on. Sgarbi non potevano essere fatte rientrare nell’ esercizio delle funzioni parlamentari; dunque non poteva essere invocata l’ insindacabilità. La Camera, da parte sua, aveva per contro eccepito l’ applicabilità dell’ art. 68, comma 1, della Costituzione attraverso l’ ordinanza del 16 settembre 1998. La difesa della Camera sosteneva la tesi per cui l’ insindacabilità coprirebbe, oltre gli atti tipici, anche le opinioni espresse legate da nesso funzionale con il mandato parlamentare. Essendo poi l’ attività parlamentare libera nel fine, si dovrebbe concludere che essa non ha contorni definibili in astratto. In sostanza l’ istituzione rappresentativa in questione riteneva che le opinioni pronunciate da Vittorio Sgarbi, ancorché riferite “extra moenia” fossero legate all’ esercizio della funzione parlamentare e che, dunque, potesse invocarsi l’ insindacabilità ex art. 68 della Costituzione. Di diverso avviso è stata la Corte Costituzionale, per la quale occorre dare un’ interpretazione più restrittiva al nesso funzionale non facendo ricadere in esso l’ intera attività politica dei parlamentari. La Corte ha ribadito che estendendo eccessivamente il nesso funzionale, si finirebbe per trasformare la prerogativa dell’ insindacabilità in privilegio personale; ciò avrebbe ripercussioni negative anche sul principio di eguaglianza (art. 3 della Costituzione). Le dichiarazioni dell’ on. Sgarbi sono state riferite ad agenzie giornalistiche, al di fuori delle funzioni parlamentari; non può, pertanto, essere invocato l’ art. 68. La Corte, perciò, ha risolto il conflitto di attribuzione a favore dell’ autorità giudiziaria ed ha annullato, nella parte in cui si riferisce al contenuto delle dichiarazioni, non corrispondente sostanzialmente a quello delle interrogazioni[3] presentate dall’ on. Sgarbi al Ministro della Giustizia il 29 aprile 1994, la deliberazione della Camera del 16 settembre 1998. Se non fossero sufficienti le argomentazioni finora addotte a sostegno di una interpretazione più restrittiva del concetto di nesso funzionale, si può ulteriormente fare riferimento ad un altro pronunciamento della suprema Corte in materia, ossia la sent. n. 11 del 2000. Anche in questa occasione è stato protagonista l’ on. Vittorio Sgarbi. Nella fattispecie egli era stato accusato del reato di diffamazione aggravata ai danni del dott. Antonio Di Pietro. Le dichiarazioni erano state rilasciate dall’ on. Sgarbi nel corso del programma televisivo “Sgarbi quotidiani” e riguardavano la locazione, da parte di Di Pietro, di un appartamento a Milano ad un canone ritenuto esiguo. A parere del tribunale di Bergamo, sezione II penale, investito del caso, mancherebbe nella fattispecie il nesso funzionale, con conseguente impossibilità di invocare l’ insindacabilità di cui all’ art. 68 della Costituzione. Di diverso avviso era, come è facile intuire, la Camera dei Deputati, che con la delibera del 17 giugno 1998 dichiarò l’ insindacabilità delle opinioni del suo membro eccependo l’ applicabilità dell’ art. 68, comma 1, della Costituzione. Ciò in quanto la Camera riteneva le dichiarazioni di Sgarbi ricadenti nell’ ambito delle funzioni parlamentari a causa del fatto che esse erano coerenti con l’ attività politica portata avanti da Sgarbi dentro e fuori il Parlamento. La Corte Costituzionale sostenne, invece, che quelle dichiarazioni potessero solo essere genericamente ricollegabili all’ “attività politica intesa in senso lato”, ciò che non può ammettere l’ insindacabilità ex art. 68. Pertanto, essendo carente, nel caso in esame, il nesso funzionale, la Corte ha annullato la deliberazione della Camera del 17 giugno 1998 in quanto con essa l’ istituzione parlamentare ha invaso la sfera di attribuzioni dell’ autorità giudiziaria. Citiamo, ancora, la sentenza con cui la Corte (sent. 509 del 2002) ha statuito che non basta, affinché si abbia insindacabilità, che le opinioni siano espresse all’ interno degli edifici del Parlamento; infatti esse devono anche rientrare nel campo applicativo del diritto parlamentare. Vale la pena ricordare brevemente i fatti che sono alla base di questo pronunciamento della Consulta. In data 15 luglio 1998 la Camera dei Deputati ha emanato una deliberazione nella quale ha eccepito l’ applicabilità dell’ art. 68, comma 1, della Costituzione a seguito delle dichiarazioni, ritenute diffamatorie, pronunciate all’ interno della buvette della Camera dall’ on. Fabio Mussi all’ indirizzo dell’ on. Cesare Previti. Tali dichiarazioni sono state rese dall’ on. Mussi con un tono di voce tale da poter essere udite a distanza, anche da un giornalista presente che provvide a pubblicarne il contenuto sul quotidiano “Milano Finanza” in data 29 gennaio 1998. L’ on. Previti, ritenendo lesive della sua onorabilità le espressioni dell’ on. Mussi, è ricorso in giudizio. Il Tribunale di Roma, sez. XIII civile, ha contestato le argomentazioni contenute nella deliberazione della Camera del 15 luglio 1998 in quanto le affermazioni dell’ on. Mussi non avevano a che fare con le funzioni parlamentari, ma costituivano un colloquio meramente privato, pienamente rientrante nella sfera della libera manifestazione del pensiero di cui dell’ art. 21 della Costituzione. E ciò sebbene le opinioni espresse da Mussi fossero state espresse all’ interno della sede parlamentare (intra moenia). Secondo la Corte non è sufficiente, affinché si abbia nesso funzionale, la mera localizzazione delle dichiarazioni all’ interno delle sedi delle istituzioni rappresentative. Il criterio su cui si basa la prerogativa dell’ art. 68 è quello funzionale e non quello meramente spaziale[4]. Da tutti questi fatti ha avuto origine un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato conclusosi con l’ annullamento della deliberazione della Camera dei Deputati del 15 luglio 1998 e con la conseguente soluzione del conflitto a favore dell’ autorità giudiziaria. Infine consideriamo la sentenza n. 375 del 1997. Anche in questa occasione il pronunciamento della Consulta è stato originato da un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, nella fattispecie il Senato della Repubblica e il Tribunale di Roma. Il GIP presso tale Tribunale ha sollevato conflitto a seguito della delibera del Senato adottata il 7 maggio 1997 con cui l’ istituzione parlamentare ha eccepito l’ applicabilità dell’ art. 68, comma 1, con riferimento alle dichiarazioni espresse dal sen. Erminio Boso. Il senatore Boso aveva rilasciato, nella sala stampa del Senato una dichiarazione resa pubblica dall’ agenzia giornalistica AGI il 15 gennaio 1996, nella quale si esprimeva in toni molto critici nei confronti dell’ operato del sig. Giampiero Cioffredi, coordinatore nazionale di “ARCI solidarietà”; in particolare il sen. Boso aveva affermato che “promettendo l’ Eldorado alla gente del terzo mondo” si deruberebbero i lavoratori italiani. Tale valutazione negativa era riservata dallo stesso senatore anche a: “la Caritas, i comunisti ed i sindacati”. Le suddette dichiarazioni venivano riprese dal Quotidiano “La Nazione” il 16 gennaio 1996. Il sig. Cioffredi ha presentato una denuncia-querela nei confronti del sen. Boso per il reato di cui all’ art. 595 del Codice penale ed all’ art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47[5]. A seguito di ciò il Senato ha opposto l’ insindacabilità. Conseguentemente il GIP presso il Tribunale di Roma ha sollevato il conflitto di attribuzioni. Il Senato, si è costituito in giudizio, menzionando la decisione del pubblico ministero di richiedere l’ archiviazione; tale richiesta era stata fatta in quanto le dichiarazioni del sen. Boso erano state ritenute “strettamente coniugabili con l’ attività conoscitiva ed interpretativa della funzione parlamentare”. La Corte, da parte sua, ha affermato che è sembrata prevalere all’ epoca dei fatti, ossia nel 1997, un’ interpretazione estensiva del concetto di funzione parlamentare e, di conseguenza, un allargamento del nesso funzionale; e ciò quasi a supplire all’ eliminazione dell’ autorizzazione a procedere con la riforma costituzionale del 1993. Tuttavia, anche se le espressioni del sen. Boso non potevano formalmente essere considerate come riproduttive di quanto sostenuto dal senatore nei suoi interventi in commissione affari costituzionali, il Senato ha ritenuto che le dichiarazioni di Boso fossero “divulgative di una scelta politica”; per di più esse si tradussero in emendamenti ed in un disegno di legge. Inoltre il dibattito parlamentare sull’ immigrazione era particolarmente aspro nel gennaio 1996 ed in assemblea ci fu più di una richiesta di garantire al massimo l’ autonomia delle Camere ed il libero svolgimento del mandato parlamentare. Pertanto in questa circostanza non è apparso, alla Corte, che il Senato abbia invaso la sfera dell’ autorità giudiziaria esercitando arbitrariamente il potere parlamentare. La conclusione è che la Consulta ha risolto il conflitto a favore del Parlamento, avendo stabilito che spetta al Senato affermare l’ insindacabilità ai sensi dell’ art. 68, comma 1, della Costituzione. In questa occasione la Corte ha così ritenuto che fosse legittimo, da parte dell’ istituzione parlamentare, invocare l’ insindacabilità; in effetti in questo caso il legame tra le dichiarazioni e le funzioni parlamentari appare più stretto dal momento che, non solo le opinioni sono state rese in una sede istituzionale (la sala stampa del Senato), ma erano state anche accompagnate da atti connessi all’ attività parlamentare (emendamenti e disegni di legge). Dall’ analisi condotta finora possiamo concludere che è auspicabile un’ interpretazione che non distorca, allargandolo a dismisura, il concetto di “nesso funzionale”, pena il radicarsi, nella prassi parlamentare, di un vero e proprio abuso commesso per il solo tornaconto personale dei parlamentari. Il problema dell’ insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari nell’ esercizio delle loro funzioni ha anche coinvolto, in tempi recenti, il diritto europeo e la Corte europea dei diritti dell’ uomo. A questo proposito annoveriamo due casi che hanno coinvolto altrettanti parlamentari. Il primo di essi si è verificato a seguito del ricorso presentato alla Corte europea dei diritti dell’ uomo dal procuratore della repubblica Agostino Cordova. Cordova è ricorso alla Corte contro il senatore Francesco Cossiga in quanto questi gli aveva inviato lettere sarcastiche e giocattoli. Il secondo caso ha ad oggetto sempre un ricorso presentato dal procuratore Cordova, questa volta contro l’ on. Vittorio Sgarbi per diffamazione aggravata; in particolare, l’ on. Sgarbi aveva parlato male di Cordova in alcune riunioni elettorali, facendolo addirittura oggetto di espressioni volgari. In entrambi i casi le Camere ritennero che le espressioni usate dai loro membri nei confronti del procuratore fossero coperti dalla insindacabilità dell’ art. 68 della Costituzione e costrinsero i giudici nazionali che si occupavano delle questioni a chiudere i procedimenti[6]. La Corte europea dei diritti dell’ uomo (Corte di Strasburgo) fu investita dei casi per violazione degli artt. 6.1 (diritto ad un processo equo), 13 (diritto ad un ricorso effettivo) e 14 (divieto di discriminazioni) della CEDU (Convenzione europea dei diritti dell’ uomo del 1950) e si pronunciò sui ricorsi presentati dal procuratore Cordova il 30 gennaio 2003 stabilendo che in entrambi i casi i comportamenti dei membri del Parlamento non potevano essere coperti dall’ insindacabilità in quanto non rientravano nell’ esercizio delle funzioni di membro di un’ assemblea rappresentativa. Il pronunciamento della Corte di Strasburgo mostra come in Italia le assemblee rappresentative tendano ad allargare l’ ambito delle garanzie giustamente sancite in Costituzione per i membri del Parlamento all’ agire dei membri stessi per fini non rientranti nelle loro funzioni, distorcendo così la ratio delle garanzie e piegando le stesse al soddisfacimento di interessi meramente personali. A conclusione di questa parte dell’ analisi dell’ art. 68 della Costituzione si può dire che: · Affinché si possa invocare l’ insindacabilità ex art. 68, comma 1 della Costituzione, delle opinioni espresse dai membri del Parlamento occorre che esse rispettino il nesso funzionale; · Tale nesso funzionale non può identificarsi con l’ attività politica globale del parlamentare, ma va fatto coincidere solo con ciò che ricade nel campo applicativo del diritto parlamentare. · Non può valere, perché si abbia insindacabilità, il mero criterio “spaziale” (opinioni pronunciate intra moenia); vale invece, quello “funzionale” (opinioni espresse anche extra moenia purché attengano all’ attività parlamentare). 3.3 Le altre garanzie previste dall’ art. 68 della Costituzione L’ immunità dei membri delle istituzioni rappresentative non si esaurisce nella insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati, in quanto l’ art. 68 assicura anche altre garanzie; infatti coloro che siedono nelle assemblee rappresentative non possono essere sottoposti a perquisizioni, arresti[7], intercettazioni e sequestro della corrispondenza senza l’ autorizzazione della Camera di appartenenza. Anche se l’ art. 68 non lo stabilisce esplicitamente come per l’ insindacabilità di voti ed opinioni, è ovvio che le garanzie ora menzionate sono intimamente connesse con la funzione di rappresentante della Nazione. Tali garanzie non possono, lo ribadiamo, costituire un illecito privilegio personale anche se, purtroppo, la prassi parlamentare è spesso andata proprio in questa direzione. In tempi recenti, in particolare, si è assistito ad una negazione quasi sistematica delle autorizzazioni; il che, ben lungi dall’ essere frutto di una valutazione corretta sull’ eventuale carattere politico della richiesta di autorizzazione, costituisce invece un modo attraverso il quale il Parlamento cerca di trasformare in privilegio illegittimo le sue legittime prerogative. Esistono altri casi, oltre quelli menzionati in precedenza, che destano perplessità al riguardo. Ad esempio, tra questi ricordiamo il caso Previti. Il 20 gennaio 1998 la Camera dei Deputati ha negato l’ autorizzazione all’ arresto dell’ on. Cesare Previti, rinviato a giudizio per concorso in corruzione per atti contrari ai doveri d’ ufficio in atti giudiziari. La Camera, attraverso il pronunciamento della Giunta per le autorizzazioni a procedere, ha affermato che vi è stata un’ “esasperazione accusatoria” nella richiesta di arresto nei confronti di Previti[8]. Come si può facilmente notare ancora una volta, l’ interpretazione e di conseguenza la prassi che le istituzioni rappresentative hanno dato all’ art. 68 si discosta, talvolta, da quella della Consulta. 3.4 L’ applicazione dell’ art. 68, della Costituzione: la legge del 20 giugno 2003, n. 140 Per operare un’ analisi più approfondita del tema dell’ attuazione dell’ art. 68 della Costituzione è necessario fare riferimento alla legge 20 giugno 2003, n. 140. L’ art. 3, comma 1 della legge stabilisce i casi nei quali si deve applicare il comma 1 dell’ art. 68 della Costituzione: in sintesi i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati in ogni caso in cui svolgano attività connesse alla funzione di parlamentare, anche se queste attività sono svolte al di fuori del Parlamento. Tra gli atti per i quali sussiste il nesso funzionale e per i quali si applica il 1° comma dell’ art. 68, l’art. 3 della legge 140/2003 menziona, tra l’altro: la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, interpellanze, interrogazioni; gli interventi nelle assemblee e negli altri organi delle Camere; le attività di ispezione, divulgazione, critica e denuncia politica. I commi successivi dell’ art. 3 sanciscono delle procedure alle quali l’ autorità giudiziaria deve attenersi, sia nel caso in cui ritenga doversi applicare l’ art. 68, comma 1 della Costituzione, sia nel caso contrario. Nel primo caso il giudice chiude il procedimento. Tuttavia l’ ipotesi che interessa maggiormente è quella che potenzialmente potrebbe generare qualche conflitto tra autorità giudiziaria e istituzioni rappresentative, ossia quella in cui il giudice non ritiene doversi applicare al procedimento l’ art. 68, comma 1. A norma dell’ art. 3, comma 4 della legge 140/2003, quando non è accolta l’ eccezione concernente l’ applicabilità dell’ art. 68, il giudice deve provvedere senza ritardo con ordinanza non impugnabile, trasmettendo copia degli atti alla Camera alla quale appartiene o apparteneva il parlamentare al momento del fatto. A questo punto il procedimento è sospeso per 90 giorni a partire dal momento in cui la Camera riceve la copia degli atti. Essa può disporre anche una proroga per un periodo non superiore a 30 giorni e poi deve deliberare, altrimenti il processo riprende il suo corso. Se delibera favorevolmente all’ applicazione dell’ art. 68, comma 1, della Costituzione, il giudice adotta senza ritardo i provvedimenti indicati dal comma 3 ed il pubblico ministero formula la richiesta di archiviazione. Se ci si sofferma su questa normativa si può notare che essa costituisce una reintroduzione surrettizia dell’ autorizzazione a procedere[9]. Infatti il procedimento viene sospeso fin tanto che la Camera di appartenenza del parlamentare in questione non delibera. Non solo: se la Camera decide che nella questione va applicato l’ art. 68 comma 1 della Costituzione, il giudice adotta i provvedimenti di cui al comma 3 dell’ art. 3 della legge 140/2003 (sentenza nel processo penale, archiviazione nel corso delle indagini preliminari, sentenza con i provvedimenti necessari alla sua definizione nel processo civile) ed il pubblico ministero formula la richiesta di archiviazione. Inoltre, anche nel caso in cui la Camera non deliberasse entro i termini stabiliti ed il processo andasse avanti, ci potrebbe essere sempre una deliberazione della Camera stessa favorevole ad applicare l’ art. 68, comma 1[10]. In tutti i casi, insomma, il processo viene “disinnescato”. Altra problematica di notevole portata riguarda le intercettazioni. A tale proposito ricordiamo che originariamente l’ art. 68 non menzionava le intercettazioni, le quali hanno invece cominciato ad essere disciplinate con la riforma costituzionale del 1993. Il nuovo art. 68 sancisce che, affinché si possa procedere con le intercettazioni, è necessaria l’ autorizzazione della Camera a cui appartiene colui che dovrebbe essere intercettato. Stando così le cose, si pone un problema: se le intercettazioni dovessero essere autorizzate, se ne vanificherebbe totalmente l’ efficacia. E allora si dovrebbe credere che la disposizione in questione sia riferita anche alle intercettazioni che ancora devono essere effettuate. Per quanto concerne intercettazioni, sequestri di corrispondenza, misure di sicurezza e provvedimenti limitativi della libertà personale dobbiamo fare riferimento all’ art. 4 della legge 140 del 2003, il quale sancisce che in questi casi è necessaria l’ autorizzazione della Camera di cui è membro il parlamentare in questione (comma 1). Il comma 3 stabilisce che detta autorizzazione non è necessaria nel caso in cui il parlamentare sia colto nell’ atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’ arresto obbligatorio in flagranza o se si deve eseguire una sentenza irrevocabile di condanna. L’ art. 6 della legge 140/2003 disciplina le intercettazioni così dette “indirette”, ossia quelle condotte nei riguardi di terzi che possono avere conversazioni con parlamentari. Statuisce il comma 1 dell’ art. 6 che se il giudice per le indagini preliminari non ritiene rilevanti dette intercettazioni ne deve decidere la distruzione integrale in camera di consiglio. Qualora invece reputi rilevante il contenuto delle intercettazioni “indirette”, per poterlo utilizzare nel procedimento deve richiedere l’ autorizzazione alla Camera di appartenenza del parlamentare intercettato (commi 2 e 3 dell’ art. 6). Il comma 5 dell’ art. 6 sancisce che se l’ autorizzazione viene negata, la documentazione delle intercettazioni è distrutta immediatamente, e comunque non oltre 10 giorni dalla comunicazione del diniego. 3.5 L’ indennità e il trattamento economico dei parlamentari Dello status particolare di cui godono i membri delle istituzioni rappresentative fa parte anche l’ indennità, ossia lo “stipendio” che i parlamentari percepiscono, a cui vanno sommate altri emolumenti particolari. A differenza dello Statuto Albertino, la Costituzione repubblicana prevede, all’ art. 69, che i parlamentari percepiscano un’ indennità stabilita dalla legge. Lo strumento normativo principale che assicura l’ attuazione dell’ art. 69 è costituito dalla legge n. 1261 del 31 ottobre 1965. L’ art. 1 statuisce che l’ indennità dei parlamentari a norma dell’ art. 69 della Costituzione per garantire il libero svolgimento del loro mandato è costituita da quote mensili che comprendono anche il rimborso delle spese di segreteria e di rappresentanza. Le quote sono stabilite dagli Uffici di Presidenza delle Camere in modo da non superare il dodicesimo del trattamento complessivo massimo annuo lordo dei magistrati con funzione di presidente di Sezione della Corte di Cassazione ed equiparate. L’ art. 2 stabilisce altri emolumenti, come la diaria a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma. Tale diaria è corrisposta in ragione di 15 giorni di presenza al mese ed in misura non superiore all’ indennità di missione giornaliera prevista per i magistrati con funzione di Presidente di Sezione della Corte di Cassazione ed equiparate; si possono fare delle ritenute per ogni assenza dai lavori dell’ assemblea o delle Commissioni. L’ art. 3 prescrive il divieto di cumulo dell’ indennità con emolumenti derivanti da altri impieghi, come ad esempio quelli provenienti da incarichi di carattere amministrativo conferiti dallo Stato, da enti pubblici, da banche di diritto pubblico, da enti privati concessionari di servizi pubblici o da enti privati con azionariato statale o, infine, da enti privati legati da rapporti d’ affari con lo Stato, le Regioni, le Province ed i Comuni. L’ indennità prevista dall’ art. 1, fino alla concorrenza dei 4/10 del suo ammontare, detratti i contributi per la cassa di previdenza dei parlamentari, non può essere cumulata con compensi derivanti da rapporti di pubblico impiego o da incarichi accademici; ciò vale anche quando i rispettivi titolari siano posti in aspettativa. L’ art. 4 della legge 1261 del 1965 pone modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361 e sancisce che i dipendenti pubblici eletti Deputati o Senatori sono collocati d’ ufficio in aspettativa per l’ intera durata del mandato parlamentare. I dipendenti pubblici che divengono parlamentari possono, per tutta la durata del mandato, conseguire promozioni solamente per anzianità (Cost. art. 98). Il tempo trascorso in aspettativa per mandato parlamentare è considerato, a tutti gli effetti periodo di attività di servizio ed è computato per intero ai fini della progressione in carriera, degli aumenti periodici di stipendio e del trattamento di quiescenza e di previdenza. Nel periodo di aspettativa, inoltre, il dipendente-parlamentare mantiene per sé e per i propri familiari a carico, il diritto all’ assistenza sanitaria ed anche alle altre forme di assicurazione previdenziale di cui avrebbe fruito se avesse prestato servizio. Tuttavia in base all’ art. 68, comma 1 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, egli non può percepire assegni; in alternativa può optare per la conservazione del trattamento economico assegnatogli dall’ amministrazione presso la quale prestava servizio in luogo, ovviamente, dell’ indennità parlamentare. Per quanto concerne il regime fiscale dell’ indennità mensile, l’ art. 5, comma 1 sancisce che essa, fino ai 4/10 del suo ammontare e detratti i contributi per la cassa di previdenza dei parlamentari della repubblica, è soggetta ad una imposta unica con aliquota globale pari al 16%. Detta imposta sostituisce quelle sulla ricchezza mobile, complementare e relative addizionali ed è riscossa mediante ritenuta diretta. Il comma 2 dell’ art. 5 prescrive anche un’ altra tassa sull’ indennità mensile, che sostituisce l’ imposta di famiglia per la quota di reddito imponibile corrispondente al suo ammontare netto; l’ aliquota è forfettaria dell’ 8%, la riscossione avviene mediante ritenuta diretta e il corrispondente importo è devoluto ai comuni di residenza dei parlamentari. L’ art. 5, comma 3 stabilisce che l’ indennità mensile e la diaria sono esenti da ogni tributo e non possono essere computate per l’ accertamento del reddito imponibile e della determinazione dell’ aliquota di qualsiasi imposta o tributo. Infine, l’ indennità mensile e la diaria non possono essere sequestrate o pignorate (comma 4). E’ significativo ricordare che il trattamento fiscale suddetto si applica, per quanto compatibile, alle indennità ed agli assegni spettanti ai consiglieri delle regioni a statuto speciale, come stabilisce l’ art. 6. Tra le varie prerogative di cui sono destinatari i membri delle istituzioni rappresentative ne citiamo ora altre, forse meno eclatanti rispetto all’ immunità ed agli emolumenti, ma pur sempre significative. Ai membri delle due Camere sono concesse, in base alla normativa posta dalla legge 21 novembre 1955, n. 1108, carte di libera circolazione sull’ intera rete ferroviaria italiana, valevoli per qualsiasi tipo di treno. Le carte vengono concesse sulla base di apposite convenzione con il Ministero del tesoro (oggi dell’ economia) nelle quali questi speciali titoli di viaggio sono valutati con una riduzione del 70% sul prezzo di tariffa. Importante – e probabilmente difficilmente giustificabile dal punto di vista etico – è il fatto che tale prerogativa sia assicurata a Deputati e Senatori anche dopo la cessazione del mandato, se essi hanno portato a termine 7 anni di mandato parlamentare. Tale disposizione appare difficile da comprendere in quanto la prerogativa che essa pone ha effetto anche dopo la cessazione del mandato. Ciò implica, a mio avviso, che tale vantaggio perde il carattere di prerogativa legata alla funzione di rappresentante della Nazione trasformandosi in privilegio personale. Altre norme significative sulle prerogative dei parlamentari sono contenute nella legge 26 luglio 1975, n. 354. Esse riguardano l’ ordinamento penitenziario e le esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. L’ art. 18-ter della legge 354 del 1975 sancisce che, in alcuni casi legati alle esigenze delle indagini, possono essere stabilite limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica, sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo e controllo delle buste che contengono la corrispondenza senza lettura della medesima. Ebbene lo stesso articolo stabilisce altresì che tali misure non si applicano qualora la corrispondenza abbia come destinatari, tra gli altri, i membri del Parlamento. L’ art. 67 della legge 354 del 1975 prevede anche la possibilità, per i membri delle Camere, di visitare gli istituti dei pena senza autorizzazione. Parimenti senza autorizzazione, i membri delle istituzioni rappresentative possono visitare anche le strutture militari (in base alla legge 24 giugno 1998, n. 206). Infine, tra le prerogative che spettano ai membri delle assemblee rappresentative ricordiamo il passaporto diplomatico, concesso ai presidenti e vice-presidenti delle due Camere e ai presidenti delle commissioni affari esteri dei due rami del Parlamento. Si noti che il passaporto diplomatico è mantenuto anche dopo la cessazione del mandato per i presidenti delle Camere ed è rinnovato ogni tre anni. A tutti gli altri membri del Parlamento è concesso un passaporto di servizioper la durata del mandato. 4. Le prerogative dei Consiglieri regionali 5. Le prerogative dei parlamentari europei 6. I reati ministeriali: un’ analisi dell’ art. 96 della Costituzione FONTI BIBLIOGRAFICHE · CIAURRO (L.) (a cura di), Lo Statuto Albertino illustrato dai lavori preparatori, Presidenza del Consiglio dei Ministri, dipartimento per le riforme istituzionali, Roma, 1996. · CIAURRO (L.), Parlamentare (status di), voce tratta dal Dizionario di diritto pubblico diretto da CASSESE (S.), Giuffrè, Milano, 2006. · CICCONETTI (S.M.), Diritto Parlamentare, Giappichelli, Torino, 2005. · CONTE (V.) (a cura di) con la supervisione di BUONUOMO (G.), Codice dello status del parlamentare, Servizio delle prerogative, delle immunità e del contenzioso. Raccolte normative n. 1, dicembre 2004, XIV legislatura. · CORCIULO (M.S.), Guida al Parlamento italiano, E.S.I., Napoli, 1998. · LANDI (G.), Guarentigie, voce tratta dall’ Enciclopedia del diritto Giuffrè, vol. XIX, Giuffrè, Milano, 1970. · ROSSI (E.), CASAMASSIMA (V.), Immunità parlamentari, voce tratta dal Dizionario di diritto pubblico diretto da CASSESE (S.), vol. IV, Giuffrè, Milano, 2006. · TRAVERSA (S.), Immunità parlamentari, voce tratta dall’ Enciclopedia del diritto Giuffrè, vol. XX, Giuffrè, Milano, 1970. SITI INTERNET CONSULTATI www.altalex.it www.camera.it www.cortecostituzionale.it www.senato.it [Segue] -------------------------------------------------------------------------------- [1] Questa è la posizione espressa dalla dottrina. [2] L’ art. 278 del Codice Penale così recita: “Chiunque offende l'onore o il prestigio del presidente della Repubblica, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”. [3] L’ on. Sgarbi presentò, in data 29 aprile 1994, due interrogazioni parlamentari il cui contenuto corrisponde solo in parte alle dichiarazioni che Sgarbi fece due giorni prima alle agenzie giornalistiche. [4] Inoltre si consideri che le dichiarazioni dell’ on. Mussi sono state rilasciate non in una sede istituzionale, ma nella buvette, ancorché all’ interno della sede parlamentare. [5] L’ art. 595 del Codice Penale e l’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 puniscono entrambi il reato di diffamazione. [6] In questi casi i giudici nazionali non ritennero che ci fossero i presupposti per un conflitto di attribuzione. [7] Si ricorda che nel caso di arresto in flagranza di reato (quando sia previsto l’ arresto obbligatorio in flagranza) o a seguito di sentenza irrevocabile di condanna non è necessaria l’ autorizzazione della Camera di appartenenza. [8] Camera dei Deputati, seduta del 19 gennaio 1998, n. 298. [9] Cfr. Emanuele Rossi e Vincenzo Casamassima, Immunità parlamentari, in Dizionario di diritto pubblico diretto da Sabino Cassese, Milano, Giuffrè, 2006. [10] Anche questa tesi è sostenuta da Emanuele Rossi e Vincenzo Casamassima nel Dizionario di diritto pubblico diretto da Sabino Cassese.

15/10/2007

Documento n.6946

Sostieni i consumatori, sostieni ADUSBEF!

Puoi sostenere ADUSBEF anche attraverso il 5 x 1000: in fase di dichiarazione, indica il codice fiscale 03638881007

Informativa sull'uso dei Cookies

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.OK