I CAVALLI DI CALIGOLA (ED I SOMARI DI PRODI)

in Articoli e studi
I CAVALLI DI CALIGOLA (ED I SOMARI DI PRODI) Scrive Corrado Stajano nel libro- “I Cavalli di Caligola: “L’imperatore Caligola – alle prese con un’assemblea recalcitrante – è passato alla storia per aver elevato il suo cavallo prediletto al rango di senatore. Un gesto folle e un atto dal clamoroso significato politico. Di fronte alle assurdità di questo nostro scorcio di storia italiana, di fronte a una Repubblica svilita, comprata, svenduta, l’associazione non pare del tutto impropria. I valori del vivere civile e i principi della democrazia vengono svuotati, il confronto politico diventa impossibile, si alzano alti steccati tra i gruppi sociali, feroci barriere tra le persone. Corrado Stajano, che nei suoi libri ha raccontato i grandi temi che hanno segnato la vita italiana di questi decenni, non si rassegna al degrado del «paese dei furbi» – una crisi prima morale che economica o ideologica. Per sfuggire alla stanchezza dell’antipolitica, per reagire a un ottimismo sempre più vuoto, I cavalli di Caligola esercita una spietata e lucida critica del presente, dall’intervento in Iraq al conflitto di interessi, dalla guerra contro la magistratura al declino della classe dirigente, dalla controriforma della scuola alle censure di regime. Per condurre questa appassionata diagnosi è però necessaria la memoria di un passato che continua a risuonare, nelle sue speranze e nei suoi aspetti più cupi: l’eterno ritorno della Dc e la rivalutazione di Craxi, la P2 e i poteri oscuri, la stagione delle bombe e la lotta a mafia e camorra, ma anche la memoria delle stragi naziste rimaste impunite. È una testimonianza che va al di là della cronaca politica e coinvolge alcuni dei protagonisti della vita sociale e culturale, da Piero Calamandrei a Benedetto Croce e Luigi Einaudi, da Raffaele Mattioli a Cesare Garboli, da Giorgio Ambrosoli a Falcone e Borsellino. Solo con questo doppio sguardo – da un lato guardare senza illusioni di maniera ai giovani e al futuro, dall’altro serbare vivo il ricordo delle esperienze e degli uomini che hanno plasmato l’Italia – possiamo smascherare le mezze verità e le bugie, le finzioni e i tatticismi che ci stanno intrappolando. E immaginare quello che può e deve essere il nostro paese. Sono passati 20 secoli, i corsi e ricorsi storici non sembrano smentirsi…..
Dal sito: www.cronologia.it IL PERIODO DI CALIGOLA dal 37 al 41 d.C. CAJO CALIGOLA - I PRIMI OTTO MESI - LA POLITICA DI CALIGOLA - IL DIVO CALIGOLA LA CRUDELTA' DI CALIGOLA - L'UCCISIONE DI CALIGOLA ------------------------------------------------------------------------- CAJO CESARE CALIGOLA Due giorni dopo la morte di Tiberio il Senato nominava imperatore Cajo Cesare Caligola. Era questi l'ultimo dei figli maschi di Germanico ed Agrippina e contava allora venticinque anni, essendo nato ad Anzio il 31 agosto del 12. Ancora bambino, era stato portato dal padre in Germania; era cresciuto fra i soldati e da questi, a causa dei calzari militari (dette caligae) che soleva portare, aveva ricevuto il soprannome di Caligola. Aveva accompagnato il padre anche in Oriente; ritornato a Roma, aveva abitato con la madre; quando questa era stata mandata in esilio era andato ad abitare con la bisavola Livia; morta costei, ne aveva pronunziato l'elogio, poi s'era recato a convivere con la nonna Antonia (la madre di suo padre). Chiamato nel 31, quand'era in età di diciannove anni, a Capri da Tiberio, in uno stesso giorno aveva vestito la toga e si era lasciata crescere la barba senza alcuno degli onori che in simile occasione erano invece toccati ai suoi fratelli. A Capri era vissuto umile e sottomesso; invano si era cercato di fargli dir male di Tiberio; egli con una abilissima condotta aveva saputo evitare l'ira e i sospetti dell'imperatore, non aveva neppure mostrato dolore per la morte della madre e dei fratelli ed era stata tale la sua sottomissione a Tiberio che si disse poi di lui non essere mai stato né miglior servitore né peggior padrone. Tuttavia -se dobbiamo credere a SVETONIO- neppure allora aveva potuto mitigare il suo carattere crudele: « uno dei suoi divertimenti preferiti era quello di assistere ai supplizi di quelli che venivano torturati. Di notte andava per le taverne e i postriboli, truccato con una parrucca ed una lunga zazzera; la più grande delle sue passioni era la musica e la danza nei teatri e Tiberio sopportava tutto questo sperando che il gusto della danza e della musica potesse mitigare il carattere feroce del nipote. L'intelligente vecchio lo conosceva così bene che spesso diceva : « Cajo vive per la rovina sua e di tutti; io educo un serpente per il popolo romano, un Fetonte per il mondo ». Giovanissimo aveva sposata Giunia Claudia, figlia di Marco Silano. Venuto Seiano in sospetto dell'imperatore, Cajo era stato nominato àugure e poi creato pontefice. Avendo perduto la moglie in conseguenza di un parto, Caligola era divenuto l'amante di Ennia Nevia, moglie di Sortono Macrone, e per mezzo di lei aveva ottenuto l'appoggio del capo dei pretoriani. Morto Tiberio, fu appunto Macrone che assicurò al nuovo imperatore la fedeltà delle coorti pretorie. La fine del vecchio e crudele imperatore era stata accolta con gioia da tutti; l'elezione di Caligola veniva ora considerata come il principio di una nuova era o meglio la continuazione del principato pacifico di Augusto. Essa segnava il trionfo del fortissimo partito di Germanico, che tante persecuzioni aveva dovuto subire e che finalmente vedeva a capo dello Stato il figliuolo dello sfortunato eroe, colui che per via materna discendeva da Augusto. Il testamento di Tiberio, che insieme con Caligola istituiva erede Tiberio Gemello, venne annullato; ma da uomo accortissimo, Caligola per non suscitare malumori pagò i legati dell'estinto e quelli dell'imperatrice Livia, pagò inoltre le somme promesse all'atto di vestire la toga virile ed elargì due volte trecento sesterzi ad ogni cittadino povero. Questi atti non potevano non conciliargli la simpatia del popolo, e poiché il popolo amava le feste e gli spettacoli di cui Tiberio era stato avaro, Caligola dopo la sua elezione volle che seguissero numerosi divertimenti per giorni e giorni. I riti degli Egiziani, che dal passato imperatore erano stati aboliti, vennero permessi; gli istrioni furono richiamati; vennero dati spettacoli di gladiatori, parte nell'anfiteatro di Tauro, parte nel Campo Marzio, e ai gladiatori furono aggiunti Africani e atleti scelti della Campania; vennero dati spettacoli scenici sia di giorno che di notte con l'illuminazione di tutta la città e abbondanti distribuzioni di doni; furono inoltre dati giuochi nel Circo che duravano dalla mattina alla sera con intermezzi di cacce di belve africane e di ludi troiani. Alcuni di questi spettacoli rimasero famosi per la polvere d'oro e il minio sparsi sull'arena e perché i gladiatori furono sostituiti dai senatori incolpati di reati o di lesa maestà. Perché tutti potessero assistere agli spettacoli vennero rimandate le liti che cadevano nei giorni di festa e perciò si videro i circhi e gli anfiteatri sempre pieni di gente plaudente. Fu tanta la gioia della cittadinanza dopo l'ingresso del nuovo imperatore a Roma che -scrive SVETONIO- « in meno di tre mesi furono immolate più di centosessantamila vittime ». Pochi giorni dopo, essendosi Caligola messo in viaggio per le isole della Campania, furono fatti i voti per il suo ritorno per dar prova della sollecitudine e dell' interesse che il popolo aveva della sua salute. Quando si ammalò, il popolo trascorreva le notti nelle vicinanze del palazzo e ci fu chi fece voto di combattere, se egli guariva, e perfino di immolarsi. All'amore grandissimo dei cittadini si aggiunse una grande benevolenza da parte degli stranieri. Difatti Artabano, re dei Parti, che aveva sempre disprezzato e odiato Tiberio, cercò l'amicizia di Cajo, ebbe un convegno col proconsole romano e, varcato l'Eufrate, adorò le aquile e le insegne di Roma e le immagini dei Cesari. I primi atti del nuovo imperatore furono di bontà e di clemenza: di Tiberio, la cui memoria avrebbe dovuto odiare, fece invece l'elogio funebre e il figlio di Druso lo adottò e lo nominò principe della gioventù; volle però, quasi condannando l'operato del defunto principe, rimettere in primo piano la propria famiglia onorando la memoria dei suoi morti e ricoprendo di onori i vivi. Recatosi a Pandataria e a Ponza, raccolse le ceneri della madre e del fratello che mise in urne preziose e portò per mare ad Ostia e poi lungo il Tevere a Roma dove furono ricevute dai principali cittadini e collocate in due arche nel Mausoleo tra grande concorso di popolo. In loro onore furono decretati sacrifici annui e in memoria di Agrippina giuochi circensi nei quali l'immagine di lei doveva esser portata con gran pompa sopra un carro. In onore del padre diede il nome di Germanico al mese di settembre, con un decreto del Senato fece conferire alla nonna Antonia tutti gli onori ch'erano stati dati alla madre di Tiberio e prese come collega nel consolato suo zio Claudio. Alle sue sorelle non decretò onori ma ordinò che i cittadini, giurando, dicessero: « non amerò me stesso ne i miei figli più di quanto, amo Cajo e le sue sorelle » e che i consoli, nei loro rapporti, scrivessero: «salute e felicità a Cajo Cesare e alle sue sorelle ». Tutto acceso dal desiderio di ricondurre la pace tra i cittadini e di cattivarsi la simpatia e la stima, concesse un'amnistia generale, fece bruciare tutti gli atti dei processi fatti a sua madre e ai suoi fratelli dopo aver giurato di non aver preso visione i nomi dei testimoni e dei delatori, e rifiutò una carta con la quale gli si rivelava una congiura, dichiarando di non voler dare ascolto alle delazioni, concesse che si ricercassero, leggessero, e diffondessero le opere di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo che il Senato aveva proibite, pubblicò i bilanci dello stato seguendo l'esempio di Augusto, istituì una nuova decuria di giudici, diede ampia libertà di giudizio ai magistrati, rimise in vigore la consuetudine di passare in rivista i cavalieri ed abolì imposta sulle vendite. Per tutte queste cose gli furono decretati molti onori, fra cui uno scudo d'oro che ogni anno i collegi sacerdotali dovevano portare al Campidoglio accompagnati dai senatori e da fanciulli e fanciulle cantanti le lodi dell' imperatore. Inoltre il giorno della sua elezione fu chiamato Parilia come se in quel giorno fosse stata riedificata Roma. In quanto alla politica estera il governo di Caligola non segnò che pochissime novità. Morto Tolomeo, la Mauritania fu ridotta a provincia; a Remetalce, primogenito di Cotys, fu dato il regno di Tracia, al secondogenito Polemone il Ponto Polemoniaco, al terzogenito Cotys l'Armenia minore; la Commagene, che da Tiberio era stata confiscata, fu restituita ad Antioco, figlio del re, accresciuta delle coste della Ciucia. Antioco ricevette inoltre cento milioni di sesterzi come indennizzo. Agrippa, principe di Giudea, ebbe, oltre il titolo di re, la tetrarchia di Filippo II, il territorio di Abila e, più tardi, la Galilea da cui fece cacciare Erode Antipa. * * * PAZZIE E CRUDELTÀ DI GALIGOLA II buon governo di Cajo Cesare Galigola durò poco più di otto mesi. Dopo questo breve tempo, colui che aveva abolita la legge di lesa maestà e dal popolo era stato chiamato stella, garzoncello, amore, pupilla degli occhi, si trasformò in un pazzo e in un mostro di crudeltà. Si volle attribuire questo mutamento ad una gravissima malattia che ridusse in fin di vita l'imperatore otto mesi circa dopo ch'era stato assunto all'impero e certo questa infermità dovette influire sul carattere di Caligola, ma anche senza questa malattia Cajo Cesare non sarebbe rimasto il buon principe dei primi tempi. Noi crediamo che egli fingesse bontà e rettitudine per consolidare il suo potere; in realtà egli era di animo crudele ed aveva in sé già i germi della pazzia. Di corpo e di spirito non era sano; soffriva di epilessia sin dall'infanzia ; il corpo aveva tutte le caratteristiche del degenerato. Che fosse di natura crudele è dimostrato dalla vita condotta nella sua prima giovinezza. Un uomo simile non poteva tardare a rivelare i suoi istinti feroci. Dal giorno in cui egli si toglie la maschera dal viso, tutti i suoi atti sono quelli di un depravato, di un demente e di un sanguinario. Libidinoso più del precedente imperatore, si unisce incestuosamente con le sorelle, Giulia ed Agrippina, e viola la sorella Drusilla che dà in sposa al consolare Cassie Longino, ma poi la rivuole. Per costei ha un' inclinazione particolare e la considera come moglie. Essendo infermo, la istituisce erede dei suoi beni e dell' impero; quando Drusilla improvvisamente muore, ordina un lutto pubblico, decreta che i giuramenti siano fatti nel nome di lei, la divinizza col nome di Pantea e le fa innalzare statue. Invaghitesi di Livia Orestilla, mentre questa banchetta per celebrare le sue nozze col senatore Calpurnio Pisone, la toglie allo sposo e la fa sua moglie, ma dopo pochi giorni la ripudia; la stessa sorte tocca alla bellissima Lollia Paulina, che, strappata al marito, viene sposata e poco dopo ripudiata da Caligola. Sua ultima moglie è Cesonia, già madre di tre figlio, né brutta né bella né giovane, ma piuttosto lussuriosa, che riesce a ispirare al marito una passione morbosa e duratura. Ma di quest'amore non è compagno il rispetto: l'imperatore la veste di clamide, l'arma di scudo e di casco e la conduce fra i soldati; agli amici la mostra nuda. Né sono queste soltanto le prove della libidine del principe. Ha turpi rapporti con Marco Lepido, col pantomimo Menestre, con Valerio Catullo e parecchi altri; dedica il suo tempo ad orge scandalose in compagnia di Pirallide, notissima, prostituta, invita a pranzo le matrone più illustri di Roma per strapparle ai loro mariti ed abusarne; e all'onta aggiunge lo scherno quando incontrando i rispettivi mariti loda il corpo e le prestazioni lussuriose delle loro consorti. La follia in Caligola è pari alla lussuria. Egli si crede dio. Dalla Grecia fa venire le statue più pregevoli delle divinità maggiormente venerate, fra cui quella di Giove Olimpo, e fa sostituire la loro testa con la sua; fa ingrandire la sua casa fino al Foro e la congiunge al tempio dei Dioscuri e fra le statue di Castoro e Polluce si siede e si fa adorare. Prende il titolo di Ottimo Massimo proprio di Giove e si fa salutare col nome di Giove Latino; si fa erigere un tempio in cui pone una sua statua d'oro; istituisce uno speciale collegio di sacerdoti che in questo tempio Sacrificano fagiani, pavoni, oche nere, galline d'India e d'Africa; invita la luna a congiungersi con lui, parla con Giove, ordina che nelle province gli vengano eretti templi e che la sua statua abbia un posto nel tempio dei Giudei a Gerusalemme. La mania della grandezza gli suggerisce azioni grottesche: vieta che s'innalzino statue a persone viventi, muove guerra alle opere di Omero, Livio e Virgilio perché non vuole essere oscurato dall'ingegno di questi grandi; per superare Serse che aveva passato l'Ellesponto fa costruire sul mare tra Baia e Pozzuoli per un tratto di tremila e seicento passi un ponte su navi ricoperto di terrapieno a somiglianza della Via Appia e vi passa e ripassa per due giorni, prima sopra un cavallo magnificamente bardato, portando in capo una corona di quercia, intorno al corpo una clamide dorata, nelle mani uno scudo gallico, una scure ed una spada, poi sopra un ricchissimo carro, preceduto da un ostaggio dei Parti e seguito dai suoi pretoriani e dai cocchi degli amici; disegna di ricostruire a Samo la reggia di Policrate, di fondare una città sulle Alpi e di tagliare l'itsmo di Corinto, dice di voler muovere guerra ai Germani e, apprestato un esercito di circa duecentomila uomini, va sul Reno, fa nascondere in un bosco un certo numero di soldati germanici della sua guardia, finge di assalirli e ritorna al campo trionfante; venutagli l'idea di fare una spedizione in Britannia, conduce le sue truppe sulle rive della Manica e qui, fatto dare il segnale dell'assalto, ordina ai soldati di raccogliere conchiglie per ornarne il Campidoglio. Né queste sono le sole stranezze da lui commesse: vuole trionfare per le due spedizioni non fatte contro i Germani e i Britanni e traveste numerosi Galli, che serviranno a far la parte di prigionieri; fa svegliare una notte alcuni senatori e, dopo averli convocati a casa sua, li licenzia dopo aver fatto davanti a loro alcune capriole; fa costruire scuderie di marmo per il suo cavallo, lo nomina membro di un collegio di sacerdoti e lo fa eleggere console, e, per non citare altro: durante uno spettacolo ordinò di toglere il velario del teatro perché gli spettatori rimanessero esposti ai raggi del sole. L'uomo feroce e sanguinario supera però di gran lunga il pazzo. Cajo Caligola assume il titolo di dominus e si considera padrone di tutti, dal più alto magistrato all'ultimo cittadino. «Volle che molti senatori, che già avevano ricoperte le più alte cariche, corressero a piedi e in toga davanti al suo cocchio per parecchie miglia e rimanessero ritti vicino la sua tavola o ai suoi piedi portando, come gli schiavi, un grembiule; altri senatori fece morire segretamente e per un certo tempo continuò a chiamarli come se fossero ancora vivi; poi fece credere che si fossero suicidati. Destituì i consoli perché avevano dimenticato di annunziare con un editto l'anniversario della sua nascita, e per tre giorni lo Stato rimase senza i supremi magistrati. Fece battere con le verghe il suo questore, lo denudò e lo gettò sotto i piedi dei suoi soldati per esser battuto più fortemente solo perché il nome di lui era stato pronunziato in una congiura. Con pari arroganza e crudeltà trattò gli altri ordini. Disturbato dal chiasso prodotto da coloro che di notte si affrettavano ad occupare nel Circo i posti gratuiti, li fece scacciare a colpi di bastone; nel tumulto che ne seguì perirono più di venti cavalieri romani, altrettante matrone e un gran numero di plebei. Per far sorgere liti tra l'ordine equestre e la plebe, faceva cominciare i giuochi prima dell'ora stabilita affinché i posti destinati ai cavalieri fossero occupati dai primi arrivati" (Svetonio) ». Per non spendere troppo comprando gli animali per il pasto delle fiere, più di una volta ordinò che venissero loro dati i detenuti. Condannò ai lavori forzati dopo averli fatti bollare con un ferro rovente o fece mettere in gabbie strettissime molti distinti cittadini colpevoli soltanto di non aver giurato in nome suo o di essersi mostrati poco soddisfatti di uno dei suoi spettacoli. Obbligava i genitori ad assistere al supplizio dei loro figli e uno di essi, dopo di essere stato spettatore dei tormenti inflitti a un suo figlioletto, fu costretto da Caligola a sedere alla mensa imperiale e a stare allegro. Assistendo un giorno ai sacrifici davanti ad un altare, brandì una scure e uccise il sacerdote; a un cavaliere, condannato alle fiere, che si proclamava innocente fece tagliare la lingua; sospettando che gli esiliati gli augurassero la morte, fece trucidare dai sicari tutti coloro che erano stati deportati nelle isole; voleva che i supplizi fossero prolungati e squisiti affinché la morte dei condannati fosse meglio sentita: ogni dieci giorni compilava l'elenco dei cittadini da giustiziare e diceva che metteva in ordine i suoi conti ». Adirato contro il pubblico, che in uno spettacolo aveva espresso parere diverso dal suo, esclamò : «Oh se il popolo romano avesse una sola testa ! » ; avendo una volta i due consoli che pranzavano con lui chiesto umilmente perché ridesse, rispose : «rido perché penso che con un sol cenno potrei farvi scannare entrambi », e tutte le volte che baciava il collo della moglie o di un'amante diceva : «questa bella testa cadrà quando io vorrò ». E moltissime furono le teste che rotolarono per suo ordine, né si salvarono amici e parenti: furono trucidati il re Tolomeo, cugino dell' imperatore, Ennia Nevia, Sertorio Macrone; la nonna Antonia fu -come si crede- avvelenata e il suocero Silano fu costretto a darsi la morte; Tiberio Gemello per ordine di Caligola fu assassinato da un tribuno militare. Solo lo zio Claudio e le sorelle scamparono, ma queste ultime saranno più tardi mandate in esilio. «Nello spendere - scrive SVETONIO- superò ogni altro dissipatore. Inventò nuovi modi di bagni, di cibi e di banchetti; si lavava con essenze odorose, inghiottiva perle e pietre preziose con aceto, offriva ai commensali pane e altri cibi d'oro, dicendo; «o si è uomini frugali o si è Cesari ». Al popolo, per parecchi giorni consecutivi dall'alto della basilica Giulia, gettò monete di molto valore. Fece costruire navi liburniche di cedro con le poppe ingemmate e le vele di tela dipinta, in cui erano bagni, gallerie e ampie sale da pranzo, viti e alberi da frutto d'ogni specie. Su queste navi egli costeggiava la Campania, seduto a mensa, tra musiche e danze. Nel costruire ville e palazzi eccedeva ogni misura, e gli piaceva fare tutto quello che gli altri stimavano impossibile a farsi. Gettò dighe in un mare profondo e tempestoso, fece tagliare le più dure rocce, spianare montagne in pianure, mutar pianure in alture, con incredibile celerità perché considerava delitto capitale ogni lentezza nei lavori. E per non enumerare ad uno ad uno gli sperperi chiudiamo dicendo che in meno di un anno consumò immense ricchezze e la somma di ventisei milioni di sesterzi che Tiberio aveva accumulato». Non deve recar meraviglia se, con un simile dissipatore, presto l'erario rimase vuoto. Pur di trovar denaro da spendere Caligola non badò a mezzi. Condannò i più ricchi cittadini per poterne confiscarne i beni, fece mettere il suo nome tra gli eredi nei testamenti e fece morire molti di coloro che, dopo di averlo istituito erede, si ostinavano a vivere. Eseguì vendite pubbliche, obbligando i cittadini a comprare gli oggetti al prezzo da lui stabilito; trovandosi nelle Gallie, vendette i gioielli, i mobili, gli schiavi e i liberti delle sorelle e, spinto dal desiderio di guadagnare, fece venire da Roma tutte le vecchie suppellettili della corte e le mise all'asta. Non contento delle somme ricavate, impose nuovi tributi: una tassa su tutti i viveri che ai vendevano a Roma, una del 2 e mezzo per cento sulle spese giudiziarie e un'altra del 12 e mezzo per cento sul reddito che colpiva i facchini e le meretrici; e per non lasciar nelle mani dei funzionari pubblici le riscossioni delle imposte, ordinò che le tasse venissero riscosse dai centurioni e dai tribuni delle coorti pretorie. Fu tanto avido di guadagni che istituì - a quel che si dice- nel suo stesso palazzo un postribolo e mandò i suoi servi per le case a invitare vecchi e giovani perché lo frequentassero. Allo scopo di ricavar molto denaro dalle multe fece leggi ed ordinò che, scritte in minutissimi caratteri, venissero affisse tanto in alto da non riuscir possibile ai cittadini di prenderne visione ed uniformarvisi. Essendogli nata una figlia, pretese che fosse mantenuta e dotata dalla cittadinanza ed egli stesso si mise nel vestibolo del palazzo per ricevere i doni che la folla gli recava. Un pazzo così avido e sanguinario non poteva non attirarsi l'odio di tutti e non far sorgere nell'animo di coloro che più degli altri erano presi di mira dal suo desiderio di vendetta. Tre congiure furono ordite contro Caligola. La prima e la seconda fallirono. Marco Emilio Lepido, parente di Augusto ed amante di una sorella dell' imperatore, insieme con Lentulo Getulico, già comandante delle legioni del Reno, accusato di aver capeggiato la prima, venne messo a morte. Le sorelle di Caligola, accusate anch'esse, furono mandate in esilio. La terza congiura invece riuscì. Capo ne era Cassio Cherea, tribuno dei pretoriani, che l'imperatore soleva continuamente schernire ed oltraggiare. Con lui erano Cornelio Sabino e Papiniano, ufficiati delle coorti pretorie, il senatore Popedio, Valerio Asiatico, alcuni senatori e cavalieri, un liberto di Caligola e non pochi soldati. Fu stabilito di porre fine alla vita del tiranno il 24 gennaio del 41, in occasione delle feste augustali. Quel giorno, verso l'ora settima, mentre l'imperatore passava in un corridoio, attraverso il quale si recava ad assistere alla recita di un ditirambo che alcuni giovani asiatici dovevano fare, gli si fece incontro Cassio Cherea col pretesto di chiedergli la parola d'ordine. Caligola, al solito, rispose con una parola di scherno. Il tribuno allora estrasse la spada e lo colpì alla testa; a sua volta Cornelio Sabino con la sua lo feriva al petto. L'imperatore cadde a terra; ma non era morto: gli altri congiurati lo finirono con una trentina di colpi. Non vennero risparmiate la moglie Cesonia e la figlioletta Drusilla. La prima fu trapassata con una spada, la seconda venne sfracellata contro una parete. Quando morì, Cajo Cesare Caligola aveva ventinove anni. Il suo impero era durato tre anni, dieci mesi ed otto giorni. Il cadavere venne segretamente subito portato nei giardini di Lamia, bruciato a metà sopra un rogo frettolosamente innalzato, poi sepolto e ricoperto con poca terra. Solo più tardi, quando le sorelle tornarono dall'esilio, fu dissepolto, arso e le ceneri tumulate. Quando i congiurati ebbero finito l'opera, uscirono per le strade di Roma gridando "Roma libera!". Si ripeteva la scena delle idi di marzo quando fu assassinato Cesare. Tutti appresero la notizia in silenzio senza fare alcun gesto; convinti che lo stesso Caligola avesse fatto divulgare apposta la notizia per poi colpire chi festeggiava la sua morte.

09/10/2006

Documento n.6360

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