Da Governare per.it - Opa europee e sistema bancario italiano

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Da Governare per.it Opa europee e sistema bancario italiano di Marcello Messori 13 apr 05 Nonostante il sistema bancario italiano abbia vissuto un processo di aggregazione e di riassetto proprietario che non ha paragoni in ambito europeo, i progressi compiuti non sono stati sufficienti a far uscire i nostri maggiori gruppi bancari dalla marginalità in Europa. Tra le cause, anche l’intervento di Banca d’Italia, che ha interrotto la fase di consolidamento fra i maggiori gruppi bancari nazionali. In questo quadro, lo sviluppo della vicenda delle due Opa su Bnl e Antonveneta appare paradossale e carica di rischi. Fra l’inizio degli anni Novanta e i primi anni del Duemila il sistema bancario italiano ha realizzato un processo di aggregazione e di riassetto proprietario così ampio da non avere paragoni in ambito europeo. Prova ne sia che, nonostante gli sfavorevoli dati di partenza, oggi il grado di concentrazione del mercato bancario italiano si è quasi allineato alla media dell’Unione Europea e la proprietà pubblica nel settore si è pressoché azzerata. Combinandosi con rilevanti innovazioni normative, tali processi hanno anche inciso sulla struttura societaria e organizzativa del settore bancario italiano. Pur mantenendo i propri punti di forza nell’attività retail e nel radicamento territoriale, i nostri maggiori gruppi bancari si sono trasformati in società per azioni quotate, hanno ampliato la gamma dei servizi finanziari offerti e hanno assunto la forma di banche universali. Nonostante le distorsioni e i gravi conflitti di interesse che queste trasformazioni hanno indotto, sarebbe improprio rimpiangere il passato e non riconoscere i progressi effettuati: oggi i gruppi bancari italiani agiscono in mercati meno segmentati, hanno migliorato i loro rapporti con le imprese (anche se non con le famiglie) e hanno reso più efficiente la loro gestione. Eppure i progressi compiuti sono insufficienti. Essendo marginali nei segmenti di mercato (anche nazionale) a più alto valore aggiunto (corporate finance e investment banking), i nostri maggiori gruppi bancari non hanno raggiunto né una specializzazione né una dimensione europee. Nessuno di essi fa, cioè, parte di quella dozzina di banche in grado di svolgere un ruolo attivo nel processo di aggregazione transfrontaliero e di assumere, così, una posizione di rilievo nel mercato interno europeo. La marginalità del sistema bancario italiano in Europa ha varie cause. Sebbene sia classificabile come un paese bancocentrico, l’Italia fa segnare valori bassi in termini di rapporto fra attività o impieghi bancari e Pil rispetto alla media europea; di conseguenza, a parità di concentrazione del mercato nazionale, i nostri attori sono di dimensione più modesta che altrove. Inoltre molti degli assetti proprietari bancari, scaturiti dalle dismissioni statali e dal consolidamento degli anni Novanta, sono così intrecciati e opachi da rendere faticosi ulteriori processi di aggregazione. Infine – e soprattutto - la fase di consolidamento fra i maggiori gruppi bancari nazionali (1997-1999), che avrebbe potuto sfociare nella costruzione di un paio di giocatori italiani di respiro europeo, è stata bruscamente interrotta dall’intervento del regolamentatore (la Banca d’Italia). L’episodio, che giustifica l’ultima affermazione fatta, è legato al fallimento della doppia Opa proposta nel marzo 1999 da Unicredit su Banca Commerciale e – indirettamente – su Mediobanca e da San Paolo-Imi sull’allora Banca di Roma. Tale duplice iniziativa ha mostrato come i nostri due più solidi gruppi bancari fossero consapevoli della necessità di crescere per linee esterne così da prepararsi per tempo alla sfida europea. L’enfasi, posta da Banca d’Italia sul regolamento del Testo unico bancario (1993) in contrasto con il Testo unico dei mercati finanziari (1998), e i connessi giudizi negativi sulle "Opa ostili" bloccarono le due iniziative prima ancora del vaglio del mercato; e la successiva acquisizione della Banca commerciale da parte di Banca Intesa e il rafforzamento della Banca di Roma (poi trasformatasi in Capitalia) non sono stati sufficienti a compensare l’occasione perduta. Dopo quegli episodi, la Banca d’Italia ha continuato a "guidare" i processi bancari di consolidamento. In più occasioni, il Governatore ha infatti dichiarato chiusa la fase delle aggregazioni fra i maggiori gruppi bancari e ha incoraggiato le fusioni fra gruppi bancari (specie banche popolari) di medie dimensioni. Il risultato è che oggi nessuno dei nostri gruppi bancari, grandi nel mercato italiano ma piccolo-medi in quello europeo, appare pronto per fungere da predatore nel processo di aggregazione transfrontaliero che si sta avviando nella parte più sviluppata dell’Europa continentale. Molti dei nostri maggiori gruppi bancari costituiscono, viceversa, una preda ideale: sebbene spesso farraginosi, i loro assetti proprietari sono già presidiati da intermediari finanziari europei; inoltre, le loro fragilità organizzative non compromettono la capillarità dei loro canali distributivi in un’economia con forte industrializzazione e con elevata ricchezza. Il problema cruciale non è, quindi, la mancanza di reciprocità nelle regole di accesso ai vari mercati nazionali ma la debolezza dei nostri giocatori. Il rischio è che, alla fine del processo di consolidamento europeo, il sistema bancario italiano sia ridotto a poco più di un canale distributivo dei servizi finanziari disegnati e prodotti da una decina di player europei. Ciò spiega - anche se non giustifica - le allarmate reazioni suscitate dalle due recenti offerte pubbliche di acquisto (Opa) sul sesto (Bnl) e sul nono (Antonveneta) gruppo bancario italiano da parte della spagnola Bbva e dell’olandese Abn Amro. Di per sé, tali Opa non meriterebbero tanta attenzione: esse riguardano due gruppi bancari che sarebbero comunque destinati a un ambito nazionale o a una funzione europea di prede. Pertanto, il loro successo non metterebbe a rischio le chance europee di nostri potenziali predatori, ma anzi costituirebbe un utile segnale di apertura dei giochi fra paesi quali la Spagna, la Francia, la Germania, l’Olanda e l’Italia. Data la vulnerabilità del sistema bancario italiano, si ritiene invece con qualche fondamento che le due Opa rappresentino una prova generale per una più sistematica acquisizione del controllo proprietario dei maggiori gruppi bancari italiani da parte di grandi player europei. Se questa è davvero la partita in corso, quanto sta accadendo intorno a Bnl e Antonveneta diventa paradossale. Per evitare che la prova generale europea si trasformi in una perdita di indipendenza della parte più rilevante del sistema bancario italiano, si tratta di realizzare al più presto l’aggregazione fra il nostro gruppo bancario più efficiente (Unicredit) e uno degli altri due maggiori gruppi del paese (Banca Intesa o San Paolo-Imi) e, in subordine, l’aggregazione fra l’attore così escluso e uno dei due rimanenti più grandi gruppi. Viceversa, stando alle affermazioni pubbliche, il veto della Banca d’Italia rispetto a tali aggregazioni permane; e, stando alle ricostruzioni di vari commentatori - peraltro confermate dagli strappi borsistici delle azioni di Bnl e di Antonveneta - vi è un incessante lavorio sotterraneo di "fanti bianchi" nazionali teso a far fallire le due Opa senza lanciare una contro-Opa e senza sottoporsi all’Opa obbligatoria imposta dal concerto fra azionisti con quote complessive superiori al 30%. Se tale lavorio avesse successo, si causerebbe un nuovo vulnus ai piccoli risparmiatori e si avvalorerebbero i peggiori pregiudizi dei commissari europei; se esso portasse invece alla metamorfosi dei fanti in cavalieri bianchi e a una vincente contro-Opa tricolore, si rischierebbe di compromettere i delicati equilibri finanziari di molti attori e di condannare Bnl e Antonveneta ad assetti proprietari o a forme organizzative inefficienti.

13/04/2005

Documento n.3119

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